Programmazione e
burocratizzazione ovvero gli insegnanti
mandarini loro malgrado
Autonomia o autoanemia
scolastica?
Dove va la scuola italiana? Senso, dissenso e
controsenso delle più recenti riforme ed il male cronico dell’apparato
formativo. Perché si è arrivati al falso dilemma fra pubblico e privato.
I do not remember exactly when and why I wrote this article. Maybe about 1996 for a magazine of an alternative trade union.But the problem I discuss here has not lost unfortunately actuality,I feel things only became worse in the meanwhile.
Destroying educational institutions, or to make them private enterprises reserved to rich people makes sense to political conservators, then if the access to good schools and universities becomes expensive, the selection happens before talented and good students can reach professional degrees, d so best jobs remain reserved to the children of well off families, which are the ones most reliable to oppose every political changes.
Dove va la scuola italiana?
Nell‘ ultimo quarto di secolo la legislazione
scolastica italiana, a partire dai Decreti Malfatti (non è un aggettivo ma il
nome dell‘ allora ministro della P.I.)
ha assunto in modo crescente le fattezze di quelle „grida“ di manzoniana memoria, continuamente ripetute e
rimaste lettera morta. Valga fra i tanti il solo esempio della laurea a tutti i
docenti: era prevista nel 1974, ma i corsi di formazione universitaria saranno
attivati soltanto a partire dal prossimo anno accademico, dopo 25 anni.
Conseguenza : la pressione dei diplomati per entrare nella scuola elementare (e
quindi dei laureati per accedere ai livelli superiori o al ruolo dirigenziale) è divenuta enorme (da 500 candidati in su
per ogni posto messo a concorso. E come
conseguenza collaterale, ecco il corpo docente scaduto a sottoproletariato con
infinite gradazioni di diritti sempre più evanescenti (dal supplente annuale a
quello temporaneo fino all‘ incaricato e via dicendo). La gestione di un tale
sottoproletariato o parco buoi è
divenuto il terreno sul quale si nutre e gioca il potere e dei funzionari
sindacali e di partito, con tutte le inevitabili aberrazioni. Valga al riguardo
un solo esempio: è toccato alla Corte
Costituzionale abrogare un articolo di legge che limitava i diritti dei
vincitori dei concorsi ordinari di merito per favorire i „vincitori“ dei
concorsi „riservati“ (un eufemismo, questo, per indicare le sanatorie „todos
caballeros“, ovviamente ribattezzate „ope legis“ nella patria del diritto, per
poi finire al „doppio canale“, come se la soluzione del precariato fosse
assimilabile adl drenaggio delle Paludi Pontine.
E come ultima conseguenza della serie, per trovare
un‘ occupazione vera o fittizia ad un surplus di personale che ha dell‘ incredibile (in nessun altro
Paese del mondo il rapporto alunni/docenti
è cosí basso come in Italia) occorreva inventare una via di scampo : i
famosi/famigerati „moduli“ (forse cosí denominati perché, come il più famoso
„modulo lunare“ sono in effetti una cosa che non sta né in cielo né in terra).
Anche nella più recente contrapposizione fra i
fautori della parità fra scuola pubblica e privata, dove sembra che i più si
siano dimenticati la norma costituzionale che vieta il sovvenzionamento delle
scuole private con fondi pubblici, in realtà la questione è tutt‘ altra che la
libertà di insegnamento. O meglio è in gioco sí questa libertá, ma esattamente
da parte di coloro che la osteggiano nella scuola privata perché temono di non
poterla più soffocare come fanno ora nella scuola pubblica, nella quale hanno
mano libera.
Parlo senza
mezzi termini delle Organizzazioni sindacali. Sí, perché lungi da essere
espressione della base, le attuali OO.SS. si sono ridotte ad apparato che gestisce ed amministra un potere come merce
di scambio con la classe politica. A che cosa si sono ridotti i galoppini
sindacali „eletti“ dalla base se non
a convincere gli iscritti della
bontá delle scelte operate dai funzionari centrali, quelli per intenderci che
tanto amavano il loro lavoro che si sono fatti „distaccare“ a vita dalle
funzioni di insegnamento. I rappresentanti sindacali locali hanno unicamente il
compito di far far digerire agli iscritti i contratti che, senza più nemmeno la
preoccupazine di salvare le apparenze, prima si sottoscrivono al vertice e poi
si sottopongono all‘ approvazione della base, una forma di „democrazia“ che
ricorda i plebisciti di casa Savoia per
l‘ annessione del Meridione o le
elezioni nei Paesi dell‘ Est sotto la dominazione comunista.
E l‘ Amministrazione deve accettare tutte queste
ingerenze, che nell‘ ultimo contratto sindacale sono divenute grottesche : in
pratica in nessun circolo didattico può ancora esser presa una qualunque
decisione di rilievo senza beneplacito delle OO.SS. (che poi sono sollevate da
ogni responsabilità conseguente) e ciò per di più solo dopo l‘ espletamento di
consultazioni lunghe e macchinose. E questa sarebbe la scuola dell‘ autonomia ?
No, questa scuola si sta dissanguando : chiamiamola dunque dell‘ auto..anemia.
Se almeno la rappresentanza sindacale fosse espressione garantita del corpo
docenti : eh no, le famose elezioni dei rappresentanti anche al di fuori delle sigle sindacali è
stata rimandata sine die, ovviamente con soddisfazione delle OO.SS. che vedono
cosí incontrastato il loro strapotere.
In altre parole, sindacati e politici, imponendo un
controllo sempre più stretto e nel contempo irresponsabile, hanno soffocato la
scuola italiana mettendola in condizione di non poter più funzionare. Hanno
strangolato la libertà di insegnamento (si pensi alla famosa „Carta della
scuola“: anche qui è dovuta intervenire
una sentenza della Corte Costituzionale per far cessare l‘ enormità dell‘
arbitrio) ed hanno angariato il personale : come non ricordare l‘ obbligo dei
corsi di aggiornamento per poter accedere ai benefici di carriera, obbligo che
si riduceva alla presenza fisica dei
docenti ai famosi corsi, che di conseguenza servivano sostanzialemnte soltanto
a foraggiare gli Enti di aggiornamento (quasi tutti collegati, caso curioso, ai sindacati o ai partiti).
Conseguenze didattiche
Si potrebbe partire da qualunque aspetto per
ritrovare le stesse strutture cancerogene che stanno spingendo alla rovina la
scuola italiana. Un caso da manuale è quello della programmazione. Da quando si
parla di programmazione ? Dal 1977, cioé dall’ approvazione della Legge 570 /77
che, secondo una credenza generalizzata (dal bidello al professore universitario) „avrebbe introdotto la programmazione nella
scuola italiana“ . Già , proprio come se non si fosse mai programmato prima di
allora. In realtà la legge citata aveva soltanto imposto di esplicitare ciò che qualunque docente,
dal più coscienzioso e preparato al più
sprovveduto e lavativo da sempre facevano, e cioé la scelta degli argomenti
delle lezioni e la loro distribuzione nel corso dell‘ anno. In più la legge
imponeva l‘ esplicitazione degli „obiettivi“ (scelta lessicale significativa
poiché mutuata dal linguaggio militare dell‘ artiglieria, che non potendoli
vedere determina con calcolo topografico i punti da colpire, mentre in
fanteria, dove i punti si vedono, si parla di „bersagli“). Ed infatti i
risultati da ottenere alla fine dell‘ anno o nei periodi intermedi,
risultati individuati facendo una
calcolo di previsione (livello di partenza, tempo e materiali a disposizione),
spesso non raggiungono l‘ obiettivo ed esattamente come i colpi d‘ artiglieria
quasi sempre necessitano di un „aggiustamento“ per poterlo centrare.
La ragione principale per cui venne introdotto l‘
obbligo di esplicitare la „programmazione“
era la conseguenza di una scelta
politica : l‘ abolizione dei voti, sostituiti dalle schede di
valutazione. Questa decisione era giustificata dalla selezione selvaggia ed
ingiusta fino ad allora praticata (ricordiamo l‘ affermazione dei ragazzi di
Barbiana : „la maestra boccia e parte per il mare“) che era innegabilmente
classista se non anche razzista : e vennero come ultimo atto finalmente abolite
anche le classi differenziali, che nelle grandi città del Norditalia,
esattamente come ora in Germania ed in Svizzera, erano frequentate quasi
esclusivamente dai figli degli immigrati.
Un esempio sintomatico della legge del pendolo, cioé di quella legge non scritta che
sembra guidare (per modo di dire) il progresso del pensiero pedagogico (dove
piuttosto che novità si registrano oscillazioni fra gli estremi, cioé da un‘
esagerazione all‘ altra di segno opposto)
la si può vedere nel campo della valutazione, il primo settore in cui si
è persa nozione del senso della riforma
del 1977, frantumatasi ben presto in una serie sgangherata di provvedimenti
scoordinati e fine a sé stessi.
Basta
pensare alle famose schede di valutazione, che di modifica in modifica erano
giunte ad tale livello di complessità che nemmeno gli insegnanti riuscivano più
a venirne a capo (e pensare che secondo l‘ idea originaria dovevano servire a
rendere trasparente la valutazione anche di fronte ai genitori !). L` abolizione
della scheda di valutazione, questo mostro monumentale, è stata salutata come una grandiosa innovazione. Evidentemente pochi sanno che l‘ attuale sistema corrisponde esattamente a quello
vigente negli anni Venti, con un‘ unica variante sostanziale (oltre
alla sostituzione dei numeri colle lettere) : è scomparsa la „mediocrità“,
sostituita dalla „sufficienza“. Infatti :
1 2 3 4 5
pagella 1926
lodevole buono sufficiente mediocre insufficiente
A B C
D E
pagella 1996 ottimo
distinto buono sufficiente
non sufficiente
In pratica ci sono voluti 70 anni di riforme perché il „sufficiente“ d‘ inizio secolo
diventasse „buono“ e perché il
„mediocre“ divenisse „sufficiente“. E di conseguenza, in questo spostamento di
valori, è più che logico vedere il „buono“ di un tempo diventare oggi „distinto“, visto con che facilità oggi
basta essere „sufficienti“ per uscire dal „mediocre“, termine giustamente
abolito visto che se lo si usasse sul serio per valutare leggi e riforme, comportamenti politici e risultati, diverrebbe
indubbiamente l‘ aggettivo più diffuso.
Programmazione didattica : l‘ ultimo dei mostri
sacri ?
Gli italiani che per carattere e per necessità storiche, per sopravvivere hanno
dovuto essere più improvvisatori che
pianificatori, hanno una concezione mitica della programmazione. Pur sapendo
benissimo che se la situazione da affrontare è trasparente la programmazione è
superflua e che se invece ci si trova di fronte a problemi complessi non c‘ è programmazine che tenga,
purtuttavia ci credono o fingono di crederci.
Se Marx ed
Engels avessero scritto in Italia il loro famoso Manifesto l‘ avrebbero
sicuramente chiamato Programma. E negli anni Sessanta fra gli economisti ed i
politici italiani vi è stata addirittura la convinzione che colla cosiddetta „programmazione
economica“ si potessero risolvere sul serio i problemi del Paese.
Una pia illusione : lo stesso recente ingresso del
nostro Paese in Europa, nel primo turno dei Paesi dell‘ Euro, non è avvenuto
grazie alla programmazione ma all‘ inventiva ed alla capacità di adattamento e
di sacrificio degli italiani.
E, per saltare di palo in frasca, che dire del famoso „Programma triennale“
che alcuni anni fa doveva dimezzare entro la sua durata la percentuale di
alunni italiani nelle „Sonderschulen“ tedesche (percentuale che invece, anche
se di poco, è invece aumentata) ?
Fallita miseramente ed irrevocabilmente come metodo
di gestione dell‘ economia, la programmazione, esiliata dal pensiero economico
e politico ha trovato un accogliente rifugio nel pensiero pedagogico italiano,
ed in particolare nella scuola elementare. Perché solo in essa? Nelle scuole
secondarie o all‘ università non esiste la programmazione ? Sí e no. Sí,
ovviamente, se intesa come ripartizione della materia d‘‘ insegnamento nel corso
dell‘ anno, anche se quasi generalmente la programmazione si riduce alla
copiatura sul registro dell‘ indice del
libro di testo. No come impegno esplicito e verificabile, poiché ciò è
unicamente appannaggio dei docenti elementari.
Vediamone
dunque le profonde ragioni pedagogiche. Anzi, aritmetiche, poiché di questo si
tratta. Prima dell‘ introduzione dei
„moduli“ (tre insegnanti su due classi) ogni insegnante svolgeva 24 ore
di lezione settimanali, che coincidevano anche coll‘ orario di lezione settimanale
degli alunni. Dovendo creare lavoro ad un surplus che nel 1990 aveva raggiunto
la cifra di oltre 250.000 docenti, dopo una campagna ideologica basata sulla
denigrazione dell’insegnante di classe unico (sprezzantemente definito
„tuttologo“) e sulle lodi del „gruppo di docenti“ intessute coralmente in
nobile gara al rialzo dai più brillanti accademici della pedagogia
italiana, si giunse alla riforma che
portò a 24 x 3 = 72 le ore disponibili per due classi assegnate a tre
insegnanti. Essendo insensato un aumento dell‘ orario delle lezioni a 31 ore
(sarebbero state oltre cinque ore giornaliere fin dalla prima classe e per sei
giorni) si reputò che il limite di tolleranza era intorno alle 27 ore (4 ore e
mezza al giorno) .Cosí facendo si arrivava però soltanto a 54 ore settimanali :
che fare delle 18 ore superflue per
arrivare alle 72 ? Fantasia italica : ecco nata la „compresenza“
(altrove“tandem“ per dire la stessa cosa): giustificare un lavoro fasullo
impiegando due persone dove sensatamente ne basta una. E non dimentichiamo che,
per bambini della scuola elementare che
hanno bisogno di punti stabili di riferimento, mettere due insegnanti
contemporaneamente in classe rappresenta la violazione di un indiscusso principio
psicologico. Ma nemmeno con un tale obbrobrio si era risolto il problema di
occupare le ore eccedenti: non si poteva certo spingere la „compresenza „ oltre
certi limiti (quattro ore per insegnante fanno in totale 12 ore, ne mancavano
sempre ancora sei. Ed ecco il lampo di genio, l‘ uovo di Colombo. Se
il lavoro unitario dell‘ insegnante di classe era stato frantumato in
tre porzioni, era evidente che per poter ricostruire una linea d‘ intervento
comune occorreva .... ma sí, era fin troppo facile, ci siamo arrivati tutti
subito ... ci voleva la programmazione collettiva (in
seguito PC, da non confondersi con „personal computer“, che è un‘ invenzione
venuta dopo, anche se probabilmente ha
assolto la stessa funzione : creare nuovi posti di lavoro).
Due ore settimanali di programmazione collettiva
moltiplicate per i tre insegnati fanno 6 : sei ore sottratte all‘ insegnamento
ma che servono a cammuffare per qualche anno ancora il surplus di docenti nelle
nostre scuole. Fino alla prossima riforma che sará, immaginiamo, lo
„smodulamento“, cioè l‘ abbandono alla
chetichella della riforma come già è
avvenuto nelle scuole private (che generalmente non l‘ hanno mai applicata
avendo prudentemente chiesto in tempo una deroga di legge, visto che loro gli
insegnanti li pagano per farli lavorare, non per cammuffare la
disoccupazione).
Ma restava un ostacolo: che cosa fare della libertà
d‘ insegnamento garantita dalla Costituzione. Se infatti la programmazione
collettiva fosse stata intesa come decisione vincolante si sarebbero avuti
presto dei processi (ove non si fosse infatti trovato accordo si doveva andare
al voto e a questo punto il soccombente avrebbe fatto appello al principio
costituzionale). Per trovarsi d‘ accordo i tre docenti avrebbero infatti dovuto
possedere identiche competenze e
convinzioni pedagogiche : ma allora andavano bene ciascuno da solo sulla
propria classe. La dialettica magari anche produttiva, si potesva avere
soltanto fra insegnanti di diverse competenze e convinzioni : ma da una tale
dialettica non potevano ragionevolmente uscire che compromessi, un massimo
comun divisore al quale non poteva che corrispondere un programma piatto e
scialbo, cioè il tipico risultato di tutti i compromessi.
Ma dove forse la fantasia non sarebbe bastata, è
venuta in soccorso la religione. Come in chiesa tutti recitano lo stesso credo
e poi ciascuno si comporta esattamente
come prima e come vuole, cosí la
programmazione collettiva è stata trasformata in un rituale simile al rosario,
in cui predomina la liturgia (sgranando bene il rosario non si salta un‘ Ave
Maria, compilando bene i formulari ed i vari registri si adempie all‘ obbligo).
Poi, finita
la cerimonia si tira il fiato e si fa quello che si crede bene.
Che le cose stiano esattamente cosí lo dimostra l‘ analisi linguistica della
programmazione : il linguaggio usato ha tutte le caratteristiche di quello
liturgico.
Per cominciare, per non apparire banale, deve essere
ricercato, ermetico. Scrivere ad esempio che nella settimana dal 5 al
10 marzo si vuole insegnare agli
alunni a contare da dieci a venti
sarebbe semplicistico : come giustificare due ore di programmazione per
scrivere una tale banalità ? La
liturgia didattica insegna invece a scrivere cosí :
Nel periodo
oggetto della presente programmazione, il concetto di numero, che la quasi
totalità della classe ha documentatamente acquisito fino alla prima decina
della serie dei numeri naturali, come provano i test di ingresso e di uscita
somministrati, dopo un‘ approfondita analisi collettiva concernente l‘ esistenza o meno dei necessari
prerequisiti da parte degli alunni,
potrà essere sviluppato ed ampliato fino al limite della seconda decina. ciò
anche tenendo conto del particolare sviluppo cognitivo dei bambini in questa
fase e degli stimoli ricevuti negli
altri ambiti disciplinari in cui, come nell‘ italiano, si è affrontata già la
novella di Tredicino, avanzando nel
campo linguistico di ben tre unitá oltre la prima decina. Per quanto riguarda
la metodologia, che si intende attivare con sforzo comune e rigorosamente
sistematico in tutti gli ambiti disciplinati, si precisa che nel settore dell‘
educazione motoria si organizzeranno giochi di squadra che
richiedono un numero di giocatori superiore ai dieci ma inferiore ai venti, prelevando gli alunni mancanti da
altre classi e realizzando cosí il principio delle classi aperte per le quali è
in corso la sperimentazione di metodi (D.P.R. 419/77) regolarmente approvata dal Collegio dei docenti. Per l‘
educazione al suono, visto il numero limitato delle note naturali, che purtroppo
sono soltanto sette, né potendo introdurre i princípi dell‘ armonia
dodecafonica, ci si dovrá limitare ad insegnerà la canzone „15 uomini“. Verrà
comunque posta all‘ o.d.g. del prossimo Collegio dei docenti la richiesta di un
aggiornamento musicale per giungere alla scoperta di canti più vicini al limite
numerico della seconda decina, che devono esistere, visto che ci sono ad
es. i „44 gatti“ ( per non menzionare i
„24mila baci“).
La metodologia
per l‘ insegnamento specifico dell‘ insieme di numeri oggetto della presente
programmazione settimanale seguirà da vicino le indicazioni psicologiche di J.
Piaget, coniugando però le sue scoperte con quelle più recenti di Gardner, che
ha dimostrato come quella matematica sia soltanto una delle sette forme di intelligenza,
interagenti tutte le une con le altre seppure con forme di autonomia peculiari a
ciascuna di esse, convinzione già espressa negli anni Venti dal Circolo
Linguistico di Praga, poi ripresa e perfezionata dal Circolo di filosofico di
Vienna e ultimamente confermata dalle ricerche empiriche compiute dal Circolo dei Canottieri di Bellagio colla
formula del quattro senza.
I materiali didattici che saranno impiegati
sono stati rigorosamente selezionalti e predisposti in modo da innalzare il
livello sia generale che specifico della motivazione, favorendo nel contempo la
socializzazione e gli scambi cognitivi,
per cui ogni alunno sarà autorizzato a „dare i numeri“ (ai compagni)
prendendo l‘ esempio dagli insegnanti che daranno a lor volta i numeri a turno, essendo compresenti.
In altre parole ecco come per imposizione
burocratica è scattato per gli insegnanti elementari lo stesso meccanismo che
nell‘ antica Cina, a partire dalle dinastie Shang nel secondo millenio a.c.,
avevano visto la classe dei Mandarini trasformare la scrittura cinese in forme
sempre più complesse fino a renderla incomprensibile ai non iniziati. Toccò a
Mao Tse Tung compiere nel 1956 la
riforma in senso opposto per consentire, con la semplificazione dei segni, un‘
alfabetizzazione di massa.
Ciò non
toglie che, come per i meravigliosi segni creati dai Mandarini, anche le
programmazioni degli insegnanti elementari
non possano aspirare a divenire una raffinata forma artistica ,
ovviamente fine a sé stessa come è destino della vera arte (l‘ art pour l‘
art).
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