Grexit: la fede perduta dell' Europapessa Merkel?
Secondo calcoli pubblicati da vari specialisti il costo di un’insolvenza
della Grecia per la sola Germania
ammonterebbe a 70-80 miliardi di euro.
Sono cifre note da tempo ma finora dissimulate grazie a trucchi contabili accettati dall’UE e dalla Troika per
evitare di rimettere in discussione l’uscita della Grecia dall’euro. Anche i
supposti “progressi” del cosiddetto risanamento dell’economia e del debito
pubblico sono smentiti clamorosamente dai fatti: dal 2010 ad oggi la
disoccupazione è raddoppiata e la
produzione industriale è crollata del 30 %.
Per credere che in queste condizioni un Paese possa ritrovare la forza di
crescere e ripagare i debiti ci vuole dunque una fede illimitata nei miracoli
della Provvidenza.
Una fede che sembra essere per un attimo venuta meno all’ Europapessa, la
Cancelliera Merkel ed al suo entourage, che abilmente ha diffuso la notizia
secondo cui il governo tedesco non considererebbe più un problema l’eventuale
uscita della Grecia dall’area euro.
Di questo entourage fa parte, volutamente o meno, anche un certo Hans
Werner Sinn, direttore dell’Ifo (Istituto per la ricerca economica di Monaco),
il quale avendo calcolato la parità dei costi per la Germania con ambedue le
opzioni (uscita della Grecia dall’area euro o cancellazione delle sue posizioni
debitorie) giustamente propone di scegliere quella più promettente, cioè un
ritorno temporaneo alla dracma e con ciò la possibilità per la Grecia di
ripresa economica.
Non occorre essere grandi economisti per comprendere questa facile
equazione: uno stato sovrano che possa liberamente stampare la propria moneta
può facilmente risanare la propria bilancia dei pagamenti poiché svalutando
rispetto ad altre monete (nel caso l’euro) scoraggia l’acquisto di merci
straniere e favorisce nello stesso tempo l’esportazione dei propri prodotti
grazie ai prezzi ridivenuti
concorrenziali.
I buffoni pro-euristi, che ignorano le anche più elementari questioni
economiche, amano confondere svalutazione ed inflazione cercando di far credere
agli sprovveduti che in uno Stato sovrano ad una svalutazione della moneta
seguirebbe giocoforza un’inflazione di pari o superiore entità. Un esame del
passato - recente come lontano - dimostra che ciò non è mai avvenuto in alcun
caso, e che al contrario la svalutazione comporta benefici economici non
indifferenti e, in momenti di crisi, decisivi per uscirne in fretta e con meno
danni.
Ci sono ancora molti che nella loro farneticante ignoranza addirittura
ipotizzano che con una svalutazione ad esempio del 20 % Paesi come la Grecia (ma anche l’Italia, la
Spagna ed il Portogallo per citare quelli più “euro-danneggiati”) avrebbero un
20 % di inflazione.
A costoro bisognerebbe chiedere se a colazione invece del caffè bevono petrolio
o se lo usano per condire i cibi: nella bilancia dei costi correnti delle
famiglie e delle imprese il petrolio infatti non pesa che per pochi punti
percentuali. Come controprova della scarsa influenza dei costi di importazione
delle materie prime abbiamo infatti attualmente un prezzo dimezzato del greggio
e pur tuttavia non si nota il minimo segno di ripresa economica: e come
potrebbe essere altrimenti, visto che per motivare gli investimenti serve ben
poco avere ridotti costi di produzione se mancano i compratori, cioè il
potere d’acquisto, che è esattamente
quanto è stato distrutto dalle politiche insensate dei fondamentalisti fanatici
dell’austerità (li chiamerei “austeronauti” visto che sembrano venuti da un
altro pianeta, quello della perfetta ignoranza delle leggi economiche).
Invece dell’inflazione l’euro ha precipitato l’Europa intera in una spirale deflazionistica. Non soltanto in
Grecia i cittadini corrono a prelevare i contanti in banca ma nella stessa
Germania un crescente numero di risparmiatori preferiscono tenere a casa i
contanti per timore dei tassi negativi praticati dalla banche. Per inciso:
visto che i depositi bancari negli ultimi tempi non fruttano più nulla, si è
realizzato di fatto il divieto scritto nel Corano di pretendere interessi sui
prestiti. Un divieto che era contemplato anche nella Bibbia, per essere
precisi, ma i banchieri fiorentini a suo tempo ingegnosamente con agguerriti
teologi lobbisti ottennero dal Papato una reinterpretazione della Bibbia e
fecero cadere il divieto. Dunque in un
certo senso l’euro ha condotto ad una “islamizzazione” dell’Europa. I razzisti
ignorantoni del movimento Pegida non conoscono certo questi dettagli, ma in
qualche modo si rendono conto di essere stati ingannati dai governanti, contro i
quali infatti, seppur ignorantemente per interposta persona scagliandosi contro un capro espiatorio -
nella fattispecie gli stranieri e segnatamente i musulmani. Non è infatti a
caso che il movimento è sorto a Dresda, cioè nella Germania orientale che incontestabilmente
è stata prima ridotta alla miseria dal regime comunista e poi trasformata in
colonia dalla Germania Occidentale: a 25 anni dall’avvenuta riunificazione
salari e pensioni in quelle regioni sono sensibilmente inferiori rispetto alle
altre regioni occidentali mentre la disoccupazione è ampiamente maggiore,
avvicinandosi in alcuni casi a quella dei Paesi mediterranei. Non è peregrino
dunque affermare che con l’introduzione dell’euro la Germania abbia voluto semplicemente esportare nei
Paesi mediterranei la stessa ricetta
coloniale sperimentata con successo nelle regioni della ex Germania comunista.
E siccome ciò che conta in ogni modello economico, indipendentemente dal
fatto che sia sano o perverso, è la
stabilità dei risultati, non è credibile che l’Europapessa pensi veramente a
concedere alla Grecia di uscire dall’euro. Sa infatti benissimo che con la
dracma la Grecia avrebbe la possibilità di si riprendersi economicamente in
tempi brevi (un paio d’anni secondo le proiezioni più serie) e quindi farebbe scuola agli altri Paesi le
cui economie sono state distrutte dall’introduzione dell’euro. Chiaramente ogni
usurario teme il fallimento dei propri clienti ed è disposto a tutto pur di
evitarlo. Ma più ancora del fallimento l’usurario teme la perdita dei clienti,
cioè che costoro non debbano più dipendere dai suoi prestiti e che quindi se ne
vada una fonte di profitto sicura.
Ovviamente i profitti di cui si parla non sono sic et simpliciter per la
Germania intera, bensí per le sue banche e per un ridotto numero di
profittatori. Ma sono costoro appunto che finanziano e quindi gestiscono la
politica tedesca, fingendosi fedeli dell’Europapessa e del suo entourage, ma di
fatto dominandone le decisioni politiche.
Nessuno si è mai chiesto ad esempio perché al contrario di quasi tutto il resto
d’Europa, in Germania non c’è un divieto di velocità massima sulle autostrade?
Non sarà per caso dovuto agli interessi delle varie ditte che producono bolidi
come Porsche, BMW ?
Il “Modello economico tedesco”
-basato sulla mortificazione salariale, la precarizzazione dei posti di
lavoro, il subappalto degli addetti per aggirare gli obblighi di assunzione
fissa e via via rendendo il lavoro sempre più merce vile e non diritto dei
cittadini - fa ingrandire la forbice fra i ceti svantaggiati e quelli più
abbienti ed i “nuovi ricchi”.
Il successo maggiore di questa politica – sempre che si possa denominare
successo un tale dispregio delle classi lavoratrici – è che non soltanto è
stata imposta senza resistenze in Germania, ma che addirittura è stata
esportata nei Paesi Mediterranei nei quali tuttavia, come ogni medicina
sbagliata, produce unicamente danni. Se in Germania infatti ha consistito di
aumentare in qualche misura l’occupazione (ma a che prezzo !!) in Paesi con
economie meno competitive non sta producendo che ulteriori e irreversibili danni.
In Italia l’attuale Presidente del Consiglio si è vantato di aver
introdotto misure di “liberalizzazione” del diritto del lavoro. Le ha
denominate “Jobs act”, un omaggio alla profezia letteraria di Orwell che nel
romanzo “1984” aveva teorizzato il
“newspeach” :una lingua creata dal Potere (Il Grande Fratello) per capovolgere
i significati: “guerra” significava “pace”,
“odio” al posto di “amore”, e
dunque “Jobs act”per dire “Jobs ruin” .
Ci vuole infatti o una grandissima disonestá o una gigantesca ingenuità per
far credere che i posti di lavoro si
possano creare rendendo più facile i licenziamenti: anche uno studente al primo
semestre di economia sa benissimo che è la legge della domanda e dell’offerta ,sia
di prodotti che di forza lavoro, a decidere il livello di occupazione.
Nessuna legge ha mai potuto imporre a chicchesia di investire e produrre e quindi assumere
lavoratori. Se invece la supposta “flessibilità” ha l’obiettivo di ridurre il
costo anche dei sempre meno numerosi posti di lavoro e con ciò aumentare i
profitti delle poche aziende rimaste sul mercato, allora la “Jobs act” è la
medicina adatta: tanto perfetta per l’irresponsabile inganno quanto letale a
lungo termine per il Paese.
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