Dienstag, 9. Februar 2016

Il dilemma dell’economia mondiale ed il trilemma europeo. 


Nell’edizione odierna del Guardian ritroviamo quello che ormai si può definire il  ritornello delle periodiche valutazioni del Nobel dell’economia J. Stiglitz. All’infuori di Mario Draghi che imperterrito continua a praticare il “QE”, cioè a pompare liquidità nelle tasche dei fruitori di rendite e di David Cameron che fa dipendere la permanenza dell’Inghilterra nell’UE dall’ autorizzazione a non regolare il settore finanziario, tutti coloro che capiscono un pochino di economia si sono resi conto che per il risanamento dell’economia mondiale ed europea in particolare, continuare con le predette cure è come somministrare curaro ad un malato di cuore. La diagnosi e la corrispondete terapia per uscire dalla crisi è tanto semplice quanto difficile da far comprendere ai governanti, che hanno ormai scelto di restare marionette nelle mani della finanza speculativa che li foraggia e li sostiene ma che e  in caso di disobbedienza è pronta a liquidarli:
“There are other policies that hold out the promise of restoring sustainable and inclusive growth. These begin with rewriting the rules of the market economy to ensure greater equality, more long-term thinking, and reining in the financial market with effective regulation and appropriate incentive structures. But large increases in public investment in infrastructure, education, and technology will also be needed. These will have to be financed, at least in part, by the imposition of environmental taxes, including carbon taxes, and taxes on the monopoly and other rents that have become pervasive in the market economy – and contribute enormously to inequality and slow growth”.(Joseph Stiglitz: What’s holding back the world economy? In: Guardian, 8.2.2016)
L’articolo citato deve essere stato consegnato  alle stampe da qualche tempo poiché parla in termini probabilistici di bolle speculative che potrebbero esplodere, mentre ciò è appunto quanto da alcuni giorni sta avvenendo. Le borse mondiali crollano, o più correttamente i corsi dei titoli azionari ritornano a livelli più vicini ai loro valori reali (cioè corrispondenti alla situazione di un’economia stagnante).
Al Forum economico mondiale di Davos, già il 27 gennaio del 2012, Gorge Soros, il multimiliardario che manovra fondi dotati di patrimoni giganteschi aveva testualmente affermato “L’euro potrebbe sopravvivere … ma con la conseguenza di distruggere l’UE”, spiegando che questa sua previsione potrebbe essere scongiurata unicamente dall’abbandono della politica di austerità da parte della Germania. Un giudizio immediatamente contestato da Wolfgang Schäuble, (“Non sono d’accordo, non è aumentando la spesa pubblica che si rilancia l’economia”.Cosí il Ministro delle Finanze tedesco, le cui visioni economiche sarebbero perfettamente adeguate per amministrare un condominio  ma appaiono sempre più disastrose per la gestione di un moderno Stato industriale.
Il dialogo tra sordi di tre anni or sono continua immutato  e appare sempre più verosimile che la storia stia per dare ragione a Soros piuttosto che a Schäuble.  La crisi dei rifugiati sta distogliendo l’attenzione del pubblico (diciamo pure del popolo illuso dalle promesse e frastornato dalle menzogne dei governanti nonché disinformato dalla stampa di regime) dai problemi economici ma essi stanno precipitando, e probabilmente nemmeno Soros alla fine avrà indovinato, poiché sia l’UE che la sua moneta unica fasulla, un gigante dai piedi d’argilla, crolleranno ambedue miseramente. Ma non crollerà certo senza fare vittime, e queste saranno in numero incomparabilmente maggiore di quelle già finora mietute da questa moneta velenosa.
C’è un tabù che nessuno ha il coraggio di nominare:  l’enorme liquidità  creata dal nulla dalla BCE (la Banca Centrale Europea) è servita finora unicamente a spostare ricchezza verso pochi fruitori di rendite e speculatori a spese dei bilanci pubblici. Un gioco sulla pelle dei disoccupati, soprattutto giovani in cerca di prima occupazione, nonché di fruitori di bassi redditi e di pensionati, spogliati insieme ai risparmiatori da questa oscena politica economica indegna di ambedue i nomi poiché non è politica ma inganno e non è economia ma rapina a danno dei meno abbienti.
Una rapina non soltanto sui piccoli redditi e sui modesti risparmi ma sul futuro:  la riduzione degli investimenti pubblici nei settori chiave della scuola, della ricerca, della cultura, delle infrastrutture e della salute pubblica sono ipoteche pesantissime per il futuro, ricordano da vicino la strategia del contadino scimunito che per risparmiare e pagare i debiti acquistava ogni anno meno sementi e coltivava sempre meno terreno, fino a che perse il podere.
Che la maggior parte della liquidità in circolazione o scritta sui conti bancari dei risparmiatori sia denaro sostanzialmente fasullo è evidente: ad esso non corrisponde infatti che una frazione minima di beni e servizi realmente esistenti. Ecco perché a ritmo regolare le borse crollano, i risparmiatori che in titoli avevano investito invece di accontentarsi di un lento esproprio dovuto alla lenta ma inarrestabile perdita di valore dei propri patrimoni vedono decimare o dimezzare se basta i propri depositi. Contrariamente ai titoloni dei quotidiani non è tuttavia vero che i crolli borsistici “brucino miliardi”  in pochi giorni come regolarmente si legge.
In finanza vale la stessa legge nota ai chimici: “nulla si crea e nulla si distrugge”. Le perdite di moltitudini di illusi sono semplicemente il guadagno dei pochi che dirigono il gioco, ciò che in realtà avviene è unicamente un trasferimento di  valori da alcune tasche ad altre.
Se ciò rimanesse un fatto privato fra investitori senza effetti per l’economia reale non sarebbe grave, peggio per chi ha perduto, buon per chi ha guadagnato. Purtroppo però l’effetto sull’intera economia è deleterio, ogni crollo borsistico è una frenata che blocca lo sviluppo economico e richiede tempo e fatica (cioè sacrifici e rinunce ai lavoratori ) per rimettere in moto il meccanismo dell’economia.  Per tentare di spiegare e magari prevedere le ricorrenti  crisi del Capitalismo sono state costruite svariatissime teorie, ma appunto per questo nessuna è stata in grado di dare pienamente ragione del fenomeno né tanto meno a fornire non diciamo rimedi preventivi, ma nemmeno cure post trauma. Unico fatto certo: le crisi sono un elemento costitutivo del sistema capitalistico, un dato di fatto che nessuno ormai si azzarda a contestare.
Ma questo è anche tutto. La crisi del 1929 venne affrontata  negli USA con misure di tipo “Keynesiano”, cioè con investimenti pubblici massicci e con la regolamentazione del settore finanziario. Il suo  superamento definitivo avvenne però con la produzione bellica, cosí come in Europa i “miracoli” economici del dopoguerra furono possibili poiché si doveva ricostruire dopo le immani rovine della guerra. Un insegnamento da quella crisi è dunque difficile da trarre poiché essa venne superata esattamente creando i presupposti per … le crisi successive.
Infatti la crescita economica con cui venne superata la crisi del 1929 generò i monopoli  giganteschi che da allora condizionano governi e decidono il destino di intere nazioni per gli interessi di pochi attori che gestiscono queste immense fortune.
Come giustamente ricordava il socialista francese Jaures, assassinato da un fascista poiché contrario alla guerra, “il capitalismo porta in sè la guerra come la nube porta la tempesta”. Non soltanto infatti questo sistema per sopravvivere deve creare la miseria delle moltitudini ma deve anche aizzarle in continue guerre fra poveri, poiché da esse il Capitale estrae i maggiori profitti. 
Valga un esempio (da: http://www.tpi.it/mondo/iraq/il-prezzo-della-guerra): Nel decennio dal 2003 al 2013 la  guerra in Irak (insieme al rimborso dei debiti ed agli interessi sui prestiti per finanziarla) è costata agli Stati Uniti 6000 miliardi di dollari. Insieme alle altre gigantesche menzogne con le quali venne fatta accettare al mondo intero, anche i preventivi di spesa erano enormemente falsati: 60 miliardi, un centesimo dei costi reali.
Ovviamente se per lo Stato ovvero per i contribuenti i seimila miliardi sono stati costi,  per chi li ha incassati sono stati profitti. Se si verificano gli andamenti dei titoli borsistici dei dieci maggiori produttori mondiali di armamenti (sei di essi statunitensi), cfr.. https://www.tharawat-magazine.com/trending/2174-top-10-largest-weapons-manufacturing-companies-in-the-world.html?showall=1
si vede che nonostante le oscillazioni temporanee, tutti questi titoli sono in fase di rapida crescita negli ultimi cinque anni, ed in particolare dal 2011, cioè dall’inizio della guerriglia contro il potere statale in Siria ed il rovesciamento del governo di Gaddafi in Libia, l’una sostenuta e finanziata dagli USA e da altri suoi fedeli collaboratori e l’altra sponsorizzata dall’allora Presidente francese e messa in opera dalla NATO.
Evidentemente chi investe in questi titoli sembra possedere due caratteristiche: non avere problemi di coscienza ed avere invece ha un buon fiuto per gli affari: sul primo aspetto non ci sono dubbi, il secondo è superfluo o scontato: se la prostituzione è considerata la più antica professione, i profitti sulla guerra sono sicuramente il più antico e sicuro metodo per costruire fortune.
Dunque tornando al titolo: nel significato proprio dal termine greco “dilemma”, cioè scelta fra premesse che ambedue conducono alla stessa conclusione negativa:

1)      Se si continua con l’austerità per salvare l’euro si mette fine all’UE

2)      Se si abbandona l’austerità si perde l’euro: ma si salva l’UE e con essa si resta perpetuamente vassalli degli USA con tanto di trattato commerciale “TTIP” e soprattutto esecutori del diktat NATO, ovvero dell’espansione militare USA.

Una speranza ci sarebbe, se invece di un dilemma avessimo un trilemma, ovvero una sintesi delle due alternative: abbandonare sia l’austerità che l’euro, come premessa per liberare l’Europa sia dalla velenosa moneta unica che dai sogni di onnipotenza dei burocrati di Bruxelles, servi delle lobbies  industrial-finanziarie mondiali, cioè una fine sia dell’euro che dell’UE e con essa della NATO: un sogno impossibile, certo, ma dunque non resta che  l’incubo di un “deja vu” che potrebbe ricordare le vicende del secolo scorso.        

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