Mittwoch, 7. Januar 2015

Grexit: la fede perduta dell' Europapessa Merkel?



Secondo calcoli pubblicati da vari specialisti il costo di un’insolvenza della Grecia per la sola Germania  ammonterebbe a 70-80 miliardi di euro.  Sono cifre note da tempo ma finora dissimulate  grazie a trucchi contabili accettati dall’UE e dalla Troika per evitare di rimettere in discussione l’uscita della Grecia dall’euro. Anche i supposti “progressi” del cosiddetto risanamento dell’economia e del debito pubblico sono smentiti clamorosamente dai fatti: dal 2010 ad oggi la disoccupazione  è raddoppiata e la produzione industriale è crollata del 30 %.
Per credere che in queste condizioni un Paese possa ritrovare la forza di crescere e ripagare i debiti ci vuole dunque una fede illimitata nei miracoli della Provvidenza.
Una fede che sembra essere per un attimo venuta meno all’ Europapessa, la Cancelliera Merkel ed al suo entourage, che abilmente ha diffuso la notizia secondo cui il governo tedesco non considererebbe più un problema l’eventuale uscita della Grecia dall’area euro.
Di questo entourage fa parte, volutamente o meno, anche un certo Hans Werner Sinn, direttore dell’Ifo (Istituto per la ricerca economica di Monaco), il quale avendo calcolato la parità dei costi per la Germania con ambedue le opzioni (uscita della Grecia dall’area euro o cancellazione delle sue posizioni debitorie) giustamente propone di scegliere quella più promettente, cioè un ritorno temporaneo alla dracma e con ciò la possibilità per la Grecia di ripresa economica.
Non occorre essere grandi economisti per comprendere questa facile equazione: uno stato sovrano che possa liberamente stampare la propria moneta può facilmente risanare la propria bilancia dei pagamenti poiché svalutando rispetto ad altre monete (nel caso l’euro) scoraggia l’acquisto di merci straniere e favorisce nello stesso tempo l’esportazione dei propri prodotti grazie ai  prezzi ridivenuti concorrenziali. 
I buffoni pro-euristi, che ignorano le anche più elementari questioni economiche, amano confondere svalutazione ed inflazione cercando di far credere agli sprovveduti che in uno Stato sovrano ad una svalutazione della moneta seguirebbe giocoforza un’inflazione di pari o superiore entità. Un esame del passato - recente come lontano - dimostra che ciò non è mai avvenuto in alcun caso, e che al contrario la svalutazione comporta benefici economici non indifferenti e, in momenti di crisi, decisivi per uscirne in fretta e con meno danni.
Ci sono ancora molti che nella loro farneticante ignoranza addirittura ipotizzano che con una svalutazione ad esempio del 20 %  Paesi come la Grecia (ma anche l’Italia, la Spagna ed il Portogallo per citare quelli più “euro-danneggiati”) avrebbero un 20 % di inflazione.
A costoro bisognerebbe chiedere se a colazione invece del caffè bevono petrolio o se lo usano per condire i cibi: nella bilancia dei costi correnti delle famiglie e delle imprese il petrolio infatti non pesa che per pochi punti percentuali. Come controprova della scarsa influenza dei costi di importazione delle materie prime abbiamo infatti attualmente un prezzo dimezzato del greggio e pur tuttavia non si nota il minimo segno di ripresa economica: e come potrebbe essere altrimenti, visto che per motivare gli investimenti serve ben poco avere ridotti costi di produzione se mancano i compratori, cioè il potere  d’acquisto, che è esattamente quanto è stato distrutto dalle politiche insensate dei fondamentalisti fanatici dell’austerità (li chiamerei “austeronauti” visto che sembrano venuti da un altro pianeta, quello della perfetta ignoranza delle leggi economiche).  
Invece dell’inflazione l’euro ha precipitato l’Europa intera in  una spirale deflazionistica. Non soltanto in Grecia i cittadini corrono a prelevare i contanti in banca ma nella stessa Germania un crescente numero di risparmiatori preferiscono tenere a casa i contanti per timore dei tassi negativi praticati dalla banche. Per inciso: visto che i depositi bancari negli ultimi tempi non fruttano più nulla, si è realizzato di fatto il divieto scritto nel Corano di pretendere interessi sui prestiti. Un divieto che era contemplato anche nella Bibbia, per essere precisi, ma i banchieri fiorentini a suo tempo ingegnosamente con agguerriti teologi lobbisti ottennero dal Papato una reinterpretazione della Bibbia e fecero cadere il  divieto. Dunque in un certo senso l’euro ha condotto ad una “islamizzazione” dell’Europa. I razzisti ignorantoni del movimento Pegida non conoscono certo questi dettagli, ma in qualche modo si rendono conto di essere stati ingannati dai governanti, contro i quali infatti, seppur ignorantemente per interposta persona  scagliandosi contro un capro espiatorio - nella fattispecie gli stranieri e segnatamente i musulmani. Non è infatti a caso che il movimento è sorto a Dresda, cioè nella Germania orientale che incontestabilmente è stata prima ridotta alla miseria dal regime comunista e poi trasformata in colonia dalla Germania Occidentale: a 25 anni dall’avvenuta riunificazione salari e pensioni in quelle regioni sono sensibilmente inferiori rispetto alle altre regioni occidentali mentre la disoccupazione è ampiamente maggiore, avvicinandosi in alcuni casi a quella dei Paesi mediterranei. Non è peregrino dunque affermare che con l’introduzione dell’euro la Germania  abbia voluto semplicemente esportare nei Paesi mediterranei  la stessa ricetta coloniale sperimentata con successo nelle regioni della ex Germania comunista.
E siccome ciò che conta in ogni modello economico, indipendentemente dal fatto che sia  sano o perverso, è la stabilità dei risultati, non è credibile che l’Europapessa pensi veramente a concedere alla Grecia di uscire dall’euro. Sa infatti benissimo che con la dracma la Grecia avrebbe la possibilità di si riprendersi economicamente in tempi brevi (un paio d’anni secondo le proiezioni più serie)  e quindi farebbe scuola agli altri Paesi le cui economie sono state distrutte dall’introduzione dell’euro. Chiaramente ogni usurario teme il fallimento dei propri clienti ed è disposto a tutto pur di evitarlo. Ma più ancora del fallimento l’usurario teme la perdita dei clienti, cioè che costoro non debbano più dipendere dai suoi prestiti e che quindi se ne vada una fonte di profitto sicura.
Ovviamente i profitti di cui si parla non sono sic et simpliciter per la Germania intera, bensí per le sue banche e per un ridotto numero di profittatori. Ma sono costoro appunto che finanziano e quindi gestiscono la politica tedesca, fingendosi fedeli dell’Europapessa e del suo entourage, ma di fatto dominandone le decisioni  politiche. Nessuno si è mai chiesto ad esempio perché al contrario di quasi tutto il resto d’Europa, in Germania non c’è un divieto di velocità massima sulle autostrade? Non sarà per caso dovuto agli interessi delle varie ditte che producono bolidi come Porsche, BMW ?     
Il “Modello economico tedesco”  -basato sulla mortificazione salariale, la precarizzazione dei posti di lavoro, il subappalto degli addetti per aggirare gli obblighi di assunzione fissa e via via rendendo il lavoro sempre più merce vile e non diritto dei cittadini - fa ingrandire la forbice fra i ceti svantaggiati e quelli più abbienti ed i “nuovi ricchi”.   
Il successo maggiore di questa politica – sempre che si possa denominare successo un tale dispregio delle classi lavoratrici – è che non soltanto è stata imposta senza resistenze in Germania, ma che addirittura è stata esportata nei Paesi Mediterranei nei quali tuttavia, come ogni medicina sbagliata, produce unicamente danni. Se in Germania infatti ha consistito di aumentare in qualche misura l’occupazione (ma a che prezzo !!) in Paesi con economie meno competitive non sta producendo che  ulteriori e irreversibili danni.
In Italia l’attuale Presidente del Consiglio si è vantato di aver introdotto misure di “liberalizzazione” del diritto del lavoro. Le ha denominate “Jobs act”, un omaggio alla profezia letteraria di Orwell che nel romanzo “1984” aveva teorizzato  il “newspeach” :una lingua creata dal Potere (Il Grande Fratello) per capovolgere i significati: “guerra” significava “pace”,   “odio” al posto di “amore”,  e dunque “Jobs act”per dire “Jobs ruin” .
Ci vuole infatti o una grandissima disonestá o una gigantesca ingenuità per far credere che  i posti di lavoro si possano creare rendendo più facile i licenziamenti: anche uno studente al primo semestre di economia sa benissimo che è la legge della domanda e dell’offerta ,sia di prodotti che di forza lavoro, a decidere il livello di occupazione.
Nessuna legge ha mai potuto imporre a chicchesia di  investire e produrre e quindi assumere lavoratori. Se invece la supposta “flessibilità” ha l’obiettivo di ridurre il costo anche dei sempre meno numerosi posti di lavoro e con ciò aumentare i profitti delle poche aziende rimaste sul mercato, allora la “Jobs act” è la medicina adatta: tanto perfetta per l’irresponsabile inganno quanto letale a lungo termine per il Paese.