Dienstag, 4. Dezember 2018

III- Il cammino dell’educazione bilingue.



Precisiamo intanto che in questa serie di articoli parlando di educazione bilingue abbiamo in mente il caso di genitori di lingue diverse o dei quali almeno uno parli correntemente una seconda lingua – in condizioni ideali a livello di lingua materna. Ci sono certamente casi di genitori che sono bilingui o plurilingui per varie ragioni, ma le cui conoscenze nelle altre lingue oltre quella materna, per quanto complete e di alto livello, sono pur sempre di fatto lingue apprese “in aggiunta” ad una lingua materna (o paterna). Anche in questi casi è possibile un’educazione bilingue con successo, ma l’impegno sarà più consistente poiché verrà a mancare una dimensione che spesso passa inosservata ma è invece fondamentale: la dimensione affettiva ed emozionale.
Nessuno è in grado di esprimere allo stesso modo, cioè con la medesima naturalezza ed autenticità, i propri sentimenti ed emozioni in tutte le lingue che padroneggia, sebbene anche a livello formale sia in grado di utilizzarle tutte con la medesima completezza e correttezza. 
Per ognuno di noi c’è sempre una lingua in cui ci si sente completamente “a casa”, che è quella con la quale abbiamo un rapporto affettivo più intenso. Al limite può anche essere la lingua che padroneggiamo meno di altre, ma nella quale ci identifichiamo perché è quella che abbiamo appreso da bambini in un contesto affettivo positivo. Per il sottoscritto ad esempio questa è la variante piemontese-occitana appresa dai genitori: con nessuna della dozzina di altre lingue apprese in seguito esiste il medesimo rapporto intimo ed affettivo. In altre lingue posso esprimere compiutamente il mio pensiero, in varie di esse ha scritto articoli, saggi e racconti, ma nel caso migliore quando si tratta di emozioni e sentimenti si tratta sempre in un certo senso di adattamenti dalla lingua famigliare che ho citato sopra.
È un poco come con le persone che si incontrano nel corso dell’esistenza, anche quelle con cui si intrecciano i rapporti più stretti. In un certo senso, a parte i genitori, i nonni, i fratelli e le sorelle, tutti gli altri sono fondamentalmente estranei. Si possono avere con loro rapporti magari migliori che con i genitori, ma inconsciamente l’impronta lasciata dai genitori è quella che forma gli individui e che magari inconsciamente condiziona nel bene tutta la vita.
Si può dire che null’altro è così intimo e fondamentale nella nostra identità che la lingua (o le lingue) apprese nell’infanzia.
Ne abbiamo un esempio illustre e molto istruttivo nel romanzo autobiografico “Lessico famigliare” di una famosa scrittrice, Natalia Ginzburg:
”Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in città diverse, alcuni di noi stanno all’estero: e non ci scriviamo spesso. Quando c’incontriamo, possiamo essere, l’uno con l’altro, indifferenti, o distratti. Ma basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase, una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte, nel tempo della nostra infanzia (…)  per ritrovare a un tratto i nostri antichi rapporti, e la nostra infanzia e giovinezza, legata indissolubilmente a quelle frasi, a quelle parole. Una di quelle frasi o parole, ci farebbe riconoscere l’uno con l’altro, noi fratelli, nel buio d’una grotta, fra milioni di persone.”  
Le parole hanno sì un significato comune per consentire la comprensione reciproca fra tutti i parlanti, ma per ciascuno hanno anche una dimensione personale, un significato aggiuntivo indissolubile che si forma nel momento e nel contesto in cui la parola viene trasmessa dai genitori ed appresa e poi utilizzata nella comunicazione famigliare. Non esistono parole neutre, esse acquistano sempre un significato particolare nel contesto sociale in cui vengono usate.
Come affermava uno studioso di letteratura russo (Bachtin), ogni parola ha il sapore del contesto, cioè dell’ambiente sociale in cui viene utilizzata, e dunque “non abita nei vocabolari ma nella bocca delle altre persone” coi cui si comunica.
Di qui l’importanza decisiva della scelta della lingua da parlare ai figli: una lingua appresa come lingua straniera, per quanto perfettamente padroneggiata non avrà mai la dimensione affettiva di una lingua posseduta ed appresa come lingua materna (o paterna).
Non si sottolineerà mai abbastanza il valore affettivo della (o delle) lingue usate dai genitori coi figli: con essa (con esse) il bambino viene condotto a vedere il mondo, a descriverlo, a spiegare le proprie sensazioni ed emozioni. Se la lingua in cui apprende non ha lo stesso valore affettivo per il genitore che la parla, essa resterà un semplice codice per comprendersi e passare informazioni, ma non diverrà mai un qualcosa di intimo e basilare per il futuro sviluppo. Le famiglie benestanti in passato utilizzavano governanti per educare in modo plurilingue i propri figli, ed era normale che fossero anche tre o quattro le lingue che questi fortunati bambini potevano imparare nell’infanzia senza sforzo, e magari anche con una certa dimensione affettiva se le governanti ne erano capaci. Ma genitori che ai nostri giorni volessero ad esempio educare in modo bilingue i propri figli parlando loro una lingua straniera non otterrebbero in alcun modo il medesimo risultato: infatti il principio “una persona - una lingua” è fondamentale. I bambini possono benissimo rendersi conto ad un certo punto che i loro genitori fra di loro o con altri parlano svariate lingue: ma ciò che conta è che UNA lingua sia il tratto che li accomuna con ciascuno dei genitori.

Nel periodo dagli anni dal 1980 fino al 2000 era opinione corrente quasi unanime e difesa ad oltranza dai docenti tedeschi che i genitori stranieri dovessero assolutamente parlare coi figli solo e soltanto il tedesco. Mi dicono che ora questa insensata opinione sia fortunatamente pressoché scomparsa. Spero che sia vero, ma mi è difficile crederlo poiché so che sono in corso progetti in varie università tedesche per verificare se l’educazione bilingue e il mantenimento delle lingue di origine dei migranti sia un fatto positivo o negativo, cosa che dimostra che rispetto ad altre nazioni qui si sia ancora indietro di almeno mezzo secolo rispetto ad una sana pedagogia interculturale. Ma evidentemente più che di opinioni scientificamente suffragate si tratta di una conseguenza di un atteggiamento politico che stenta a morire. Anche se più nessuno (salvo pochi estremisti) si avventura oggigiorno a sostenere contro ogni evidenza che “la Germania non è Paese di immigrazione” come veniva solennemente proclamato dai partiti di maggioranza fino a pochi anni or sono, evidentemente le opinioni motivate da ideologie piuttosto che da osservazione e studio dei fatti perdurano.
Documentatamene, ancor oggi il primo consiglio che viene dato ai genitori quando un alunno straniero ha qualche difficoltà nella scuola tedesca continua ad essere quello di “concentrarsi sull’apprendimento del tedesco e sospendere la frequenza ai corsi della lingua d’origine”.
Un consiglio tanto assurdo da apparire incredibile: sarebbe come a dire che la lingua appresa dal bambino prima dell’ingresso nella scuola diventi improvvisamente non solo priva di valore ma addirittura dannosa per ogni successivo apprendimento, dunque un qualcosa da estirpare come si fa con le erbacce per migliorare il raccolto.
Questi “consigli” insensati rasentano la criminalità se si pensa ai danni affettivi e cognitivi che di conseguenza hanno subito generazioni di bambini stranieri in Germania. Non ultimo i genitori che hanno seguito questi consigli hanno poi finito per constatare che lungi da apportare miglioramenti per il profitto nella scuola tedesca, l’abbandono della lingua d’ origine e l’uso coi figli del tedesco appreso in ambiente di lavoro (il cosiddetto: “Gastarbeiterdeutsch”) aveva effetti e risultati devastanti esattamente per l’apprendimento del tedesco corretto !
Una linguista Finalandese (Skuttnabb-Kangas) aveva giustamente introdotto il termine “linguicidio” per designare questa deleteria e falsa concezione pedagogica aggiungendo la velenosa ma giustificata e documentata considerazione che ad es. nella seconda metà del secolo scorso, per annientare la lingua curda degli immigrati turchi in Germania, avevano avuto maggior successo i “consigli pedagogici” degli insegnanti tedeschi che non le misure repressive (prigione) dei governi turchi in patria. 

Premessi gli effetti positivi, non si deve dimenticare che nulla è regalato: il cammino dell’educazione bilingue non è lineare e costituito da successi e progressi costanti ma un processo costituito da fasi alterne, poiché crescendo i bambini si troveranno giocoforza in situazioni conflittuali con una o a volte ambedue le lingue apprese.
I progressi difficilmente si possono mantenere paralleli, l’esposizione alle due lingue per motivi concreti non potrà mai essere identica: ci sarà sempre una lingua dominante (quella del Paese di residenza in genere) ed un’altra (o altre) che resteranno sulle difensive, laddove lo sforzo del (dei) genitori si concentrerà sul mantenimento della lingue minacciate.
Occorre dunque tenere presente che all’inizio della scolarità i genitori dei bambini bilingui potrebbero essere confrontati con analoghe riserve da parte del personale scolastico. Il modo migliore per liquidare gli eventuali consigli o esortazioni ad  abbandonare nell’educazione dei figli altre lingue che non siano quella scolastica (nel nostro caso il tedesco) è chiedere agli insegnanti sulla base di quali ricerche o studi si basino le loro riserve: probabilmente non ci hanno mai pensato, e qualora si prendano la briga ci compiere qualche ricerca (come oggi è facilissimo grazie ad internet), vedranno che le uniche pubblicazioni con cui si cercava di dimostrare che il bilinguismo era dannoso risalgono al periodo infausto fra il 1930 ed il 1945,  ed è facile capire sotto quali ideologia essi furono scritti.
Dunque premesso che il bilinguismo oltre che ad essere la situazione di fatto di almeno la metà dell’ umanità è che gli effetti positivi sono stati riaffermati da centinaia di ricerche empiriche, vediamo quali sono le condizioni per realizzarlo nell’educazione dei figli.
        
Come in ogni cammino, decisivo è il primo passo: l’educazione bilingue inizia al più tardi …dalla nascita. Ciò significa che in particolare per genitori che non parlano la medesima lingua è necessario decidere ed essere conseguenti fin dai primi giorni di vita dei figli.
Se è vero che anche con un’esposizione ridotta alla lingua tutti i bambini magari con ritardo imparano a parlare, tutti gli studi empirici sulle modalità con cui i bambini imparano a parlare dimostrano che vi sono differenze notevolissimo nei risultati a seconda che i genitori si dedichino a sostenere questo apprendimento oppure lo lascino semplicemente al caso.
In ciascuna famiglia le possibilità dei genitori possono essere anche molto diverse a seconda degli impegni e del tempo a disposizione per parlare coi figli, ma una costante va comunque sottolineata: il tempo che ad esempio il genitore meno presente in casa dedica al figlio /ai figli deve divenire una specie di rituale, un’abitudine.
Leggere ai figli si dice, sarebbe tipicamente un’abitudine delle famiglie bene, dei piccoli borghesi. Non concordo: ricordo che mio padre (operaio di fabbrica) lo faceva con me alla sera quando non doveva fare il turno di notte. Leggeva in italiano, poiché non avevamo libri scritti in occitano-piemontese, ma commentava le letture in questa lingua. La regola “una lingua - una persona” non va intesa infatti in senso assoluto. Anche mia moglie, che coi figli ha sempre parlato tedesco, ogni tanto leggeva loro libri in italiano: commentando poi in tedesco. Mia nonna, che non aveva nemmeno frequentato tutte le classi elementari, mi leggeva ogni tanto una favola in italiano, anche lei probabilmente commentando poi nella lingua che parlava con tutti, il piemontese. Mia madre preferiva raccontarmi qualcosa della sua infanzia o di altri parenti o conoscenti, lo faceva spesso mentre cuciva poiché era sarta e lavorava in casa. Lo faceva regolarmente, ed a differenza di mio padre mi parlava in italiano. Per lei l’italiano era dunque una lingua che aveva imparato a scuola e perfezionato in seguito (ho conservato come un caro ricordo il suo vocabolario piemontese-italiano).
Se per me l’italiano è divenuto comunque una lingua alla quale mi sento legato affettivamente è probabilmente dovuto al fatto che mi è stata presentata sempre in unione o alternanza alla lingua dell’ambiente famigliare ma mai in opposizione ad essa.
Soltanto a scuola, negli anni ’50 del secolo scorso, sperimentai il divieto assoluto (con tanto di sanzioni) di parlare la lingua appresa da mio padre: non credo che questo divieto sia servito a farmi apprendere meglio l’italiano, ma sicuramente mi ha  aiutato a valorizzare appunto questa lingua vietata (che cercavo di parlare in ogni occasione coi compagni)  e  a nutrire un sano scetticismo nei confronti di ogni insegnamento scolastico che assurdamente impone divieti linguistici.
Comprensibile benché non encomiabile l’atteggiamento degli insegnanti dell’epoca, coi quali sarebbe ingiusto essere severi: era un atteggiamento imposto dal fascismo, finito da pochi anni, che oltre a vietare l’uso delle lingue diverse dall’italiano aveva imposto anche il cambio dei nomi di molti comuni nella nostra regione, con esiti tanto ridicoli quanto severamente imposti.
Dunque leggere o raccontare ai bambini  è alla portata di tutti, non occorre né aver studiato né essere benestanti.  Certo è necessario un impegno costante, resistendo alla tentazione di piazzare semplicemente i figli dinanzi al televisore. Le trasmissioni radiofoniche o televisive in ambedue le lingue sono certo un utile supporto nell’educazione (se si tratta di programmi intelligenti) ma non sostituiscono in alcun modo la buona e decisiva abitudine dei genitori di dedicare tempo a parlare – ciascuno la propria lingua – ai figli.
I figli rispondono utilizzando parole o frasi dell’altra lingua? Nessun problema, se lo fanno è perché in quel momento l’espressione che viene loro più facilmente in uso è quella. Non è la “confusione” o l’ “interferenza” tanto temuta da certi insegnanti: è la soluzione pratica di chi sta imparando le due (o più lingue) e che sa che il genitore comunque lo comprende. Inutile e contro produttivo correggere o insistere per l’uso esclusivo ad esempio dell’ italiano parlando coi figli: al più si può ripetere in italiano la parola o la frase che il bambino ha espresso in tedesco, chiedendo conferma se quello era quanto voleva dire.
 L’apprendimento delle lingue è un procedimento complesso che richiede tempo e l’ascolto ripetuto di parole e frasi in un contesto significativo (che facilita la memorizzazione) fino a che intuitivamente, cioè senza l’uso cosciente di una regola come si pretende facciano gli alunni a scuola quando studiano le lingue straniere, prima o poi il bambino impara ad esprimersi correttamente.    
Dove trovare però materiali di lettura o altro (audiolibri, canzoni, ecc.) per accompagnare nelle varie età il bambino nell’apprendimento delle lingue almeno fino all’ età scolastica?
In una prossima puntata esempi di genitori che hanno praticato con successo queste ed altre strategie nell’educazione bilingue dei figli. 





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