Dienstag, 19. Januar 2016

Riflessioni sui supposti problemi irrisolti della teoria marxista del valore


Già dal confronto fra il primo libro del Capitale (che evidentemente riporta la teoria di Marx) ed il terzo libro redatto postumo da Engels sugli appunti lasciatigli dall’amico, appare evidente che Marx stava ancora sviluppando la sua teoria del valore, e che oggi probabilmente la rappresenterebbe in maniera molto diversa e più adatta a descrivere le trasformazioni nel frattempo avvenute nel sistema capitalistico.
Non intendo qui entrare nel dettaglio né riportare unicamente le note formule, che si trovano facilmente sia direttamente nel Capitale libro I. come pure nelle opere divulgative sia in quelle agiografiche che in quelle critiche. Mi preme unicamente ricordare che la teoria del valore era e resta il punto fondamentale per comprendere l’economia e con essa la dinamica del Capitale sia nelle sue forme storiche che  in quelle contemporanee.
Marx distingue chiaramente le due parti che costituiscono il capitale nella sua forma di produzione di beni: capitale variabile (cioè lavoro) e capitale costante (cioè i mezzi di produzione, chiamiamoli qui per semplicità materie prime e macchinari).
Chiamato “Valore” il prezzo di vendita del prodotto è evidente che se il processo di produzione genera profitto, questo avviene sotto forma di “Plusvalore” e non può che essere estratto dal capitale variabile, cioè dal lavoro, in altre parole remunerando il lavoratore in misura inferiore a quanto la sua attività ha aggiunto al valore della merce prodotta.
Chiaramente questo concetto è un’astrazione che non tiene conto di tanti altri fattori che influiscono sul prezzo di un prodotto, ma serve unicamente ad indicare come si genera (in caso di esito positivo del processo) il plusvalore.
W= C + L
W= valore del prodotto
C= capitale fisso
S= salario
Pv = plusvalore
L= lavoro (a sua volta composto da S + Pv)
Vale dunque l’equazione: W = C+L 
Il tasso di profitto (i) è dunque dato dall’equazione :
 i = Pv / C+S
Ne deriva che a parità di plusvalore Pv, il tasso di profitto può aumentare soltanto se o il capitale C o i salari S diminuiscono e viceversa. Questo nella forma più astratta del modello.
È però evidente che molti altri fattori entrano in gioco, e che nell’economia di mercato delle moderne società capitaliste il costo del lavoro non è riducibile al semplice salario ma comprende oltre alla retribuzione i costi sociali, gli accantonamenti per pensioni, imposte e molte altre variabili. Ciononostante il concetto di plusvalore di Marx non perde di validità, e nemmeno la sua diretta conseguenza, cioè la tendenziale caduta del tasso di profitto.
Infatti la concorrenza fra produttori impone un continuo accrescimento della produttività, innovazioni tecnologiche e quindi un aumento del capitale fisso C (che, ricordiamolo, contiene a sua volta fossilizzato capitale variabile: anche le macchine sono a loro volta prodotti risultati da attività lavorativa, idem per le materie prime).
Il tasso di profitto può essere dunque unicamente mantenuto, a parità di plusvalore, riducendo S, cioè i salari. Marx non poteva ai suoi tempi prevedere la crisi da sovrapproduzione  e si fermava dunque qui. Nelle moderne società capitaliste questa riduzione del denominatore dell’equazione del valore non avviene più come ai tempi di Marx esclusivamente aumentando le ore di lavoro o riducendo i salari, ma in misura crescente … riducendo le ore di lavoro !
Il profitto si ottiene infatti oggigiorno sempre di più con la precarizzazione dei posti di lavoro, che è una forma (perversa) di perfezionamento del ciclo produttivo in funzione del mercato.
In breve: estrae più profitto il capitalista che ha la possibilità di aumentare o diminuire la produzione immediatamente e secondo l'andamento della domanda del mercato, licenziando ed assumento a piacimento senza vincoli, e che dunque non ha “tempi morti” o “forza lavoro non pienamente occupata” e quindi può facilmente aggirare il pericolo della sovrapproduzione.
Questa la novità che Marx non ha preso in esame ai suoi tempi, ma che rientra benissimo nella sua teoria, basta adattare i termini dell’equazione alle odierne condizioni.
Più complesso invece il problema del rapporto fra salari e prezzo delle merci.
Nell’era dei monopoli e dell’intervento dello Stato (praticato in misura tanto più massiccia ma dissimulata laddove i governanti ed i loro prezzolati economisti predicano la liberalizzazione) è difficile individuare chiaramente tutti meccanismi che entrano in gioco, dalla fiscalizzazione degli oneri sociali agli sgravi fiscali di varia natura, ai  cartelli, alle sovvenzioni a imprenditori singoli o interi settori, non dimenticando le manovre della finanza,  il mercato del capitale nelle borse e gli interventi statali nel settore bancario per no citare che alcuni dei fattori che complicano – ma non inficiano – la teoria del plusvalore. 
Unico fattore innegabile e non dissimulabile resta, più vero che mai dai tempi di Marx fino ad oggi, la disoccupazione, cioè “l’ esercito di riserva del sistema di produzione capitalistico” .
Infine vorrei notare ancora un aspetto: Marx ha teorizzato il funzionamento del sistema capitalistico nell’ottica della produzione di beni. Nelle società contemporanee il settore dei servizi ha assunto una dimensione che un secolo e mezzo or sono non era immaginabile.
La teoria del plusvalore è applicabile certamente anche a questo settore, ma non in modo dogmatico e soltanto tenendo conto, nell’equazione, di tutti i fattori in gioco e come pure della loro rispettiva valenza.  Come si è visto sopra, il plusvalore può crescere addirittura riducendo il tempo di lavoro guadagnando però in flessibilità (certo, sempre a spese dei lavoratori, su questo punto non sono concesse deroghe). 
Spesso purtroppo le critiche alla teoria marxista vengono mosse prendendo gli esempi dal Capitale come dogmi, senza tener conto che Marx li aveva espressamente presentati come astrazioni e modelli utili a comprendere il meccanismo del plusvalore, ma non già ad esaurire tutti gli aspetti connessi né tanto meno come profezie per l'eternità. 
E dunque per fare un esempio, rientra nella sua teoria, se usata con intelligenza, non soltanto la produzione ma anche la distruzione di beni. L’impresa che demolisce un fabbricato, alla fine dell’operazione ha distrutto un bene, magari ancora perfettamente utilizzabile ma non più conveniente. L’imbecille potrebbe chiedersi: ma dov’è qui  il plusvalore ? L’investitore lo sa: è il valore aggiunto dell’area sulla quale può costruire un nuovo edificio, che dalla vendita gli consentirà di estrarre un profitto dall’investimento, che dunque comprende sia la fase costruttiva del nuovo edificio che la precedente fase distruttiva della demolizione, che ne è il presupposto.   
L’impossibilità di stabilire un netto e fisso rapporto fra plusvalore e tempo di lavoro e di produzione viene spesso addotto a critica della teoria marxista, ma ciò rivela unicamente una comprensione superficiale e ristretta della teoria, una comprensione rimasta ad un livello simile a quella dei cannibali che dal missionario avevano appreso unicamente le forme esteriori della preghiera e che prima di mangiarlo si fecero il segno della croce chiedendo la benedizione del cibo che stavano per prendere.     

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