Riflessioni sui supposti problemi irrisolti della teoria marxista del valore
Già dal confronto fra il primo libro del Capitale (che evidentemente
riporta la teoria di Marx) ed il terzo libro redatto postumo da Engels sugli
appunti lasciatigli dall’amico, appare evidente che Marx stava ancora
sviluppando la sua teoria del valore, e che oggi probabilmente la
rappresenterebbe in maniera molto diversa e più adatta a descrivere le
trasformazioni nel frattempo avvenute nel sistema capitalistico.
Non intendo qui entrare nel dettaglio né riportare unicamente le note
formule, che si trovano facilmente sia direttamente nel Capitale libro I. come
pure nelle opere divulgative sia in quelle agiografiche che in quelle critiche. Mi preme unicamente ricordare che la teoria del valore era e resta il punto
fondamentale per comprendere l’economia e con essa la dinamica del Capitale sia
nelle sue forme storiche che in quelle
contemporanee.
Marx distingue chiaramente le due parti che costituiscono il capitale nella
sua forma di produzione di beni: capitale variabile (cioè lavoro) e capitale
costante (cioè i mezzi di produzione, chiamiamoli qui per semplicità materie
prime e macchinari).
Chiamato “Valore” il prezzo di vendita del prodotto è evidente che se il
processo di produzione genera profitto, questo avviene sotto forma di
“Plusvalore” e non può che essere estratto dal capitale variabile, cioè dal
lavoro, in altre parole remunerando il lavoratore in misura inferiore a quanto
la sua attività ha aggiunto al valore della merce prodotta.
Chiaramente questo concetto è un’astrazione che non tiene conto di tanti
altri fattori che influiscono sul prezzo di un prodotto, ma serve unicamente ad
indicare come si genera (in caso di esito positivo del processo) il plusvalore.
W= C + L
W= valore del prodotto
C= capitale fisso
S= salario
Pv = plusvalore
L= lavoro (a sua volta composto da S + Pv)
Vale dunque l’equazione: W = C+L
Il tasso di profitto (i) è dunque dato dall’equazione :
i = Pv / C+S
Ne deriva che a parità di plusvalore Pv, il tasso di profitto può aumentare
soltanto se o il capitale C o i salari S diminuiscono e viceversa. Questo nella forma più astratta del modello.
È però evidente che molti altri fattori entrano in gioco, e che
nell’economia di mercato delle moderne società capitaliste il costo del lavoro
non è riducibile al semplice salario ma comprende oltre alla retribuzione i
costi sociali, gli accantonamenti per pensioni, imposte e molte altre
variabili. Ciononostante il concetto di plusvalore di Marx non perde di validità,
e nemmeno la sua diretta conseguenza, cioè la tendenziale caduta del tasso
di profitto.
Infatti la concorrenza fra produttori impone un continuo accrescimento
della produttività, innovazioni tecnologiche e quindi un aumento del capitale
fisso C (che, ricordiamolo, contiene a sua volta fossilizzato capitale
variabile: anche le macchine sono a loro volta prodotti risultati da attività
lavorativa, idem per le materie prime).
Il tasso di profitto può essere dunque unicamente mantenuto, a parità di
plusvalore, riducendo S, cioè i salari. Marx non poteva ai suoi tempi prevedere
la crisi da sovrapproduzione e si
fermava dunque qui. Nelle moderne società capitaliste questa riduzione del
denominatore dell’equazione del valore non avviene più come ai tempi di Marx
esclusivamente aumentando le ore di lavoro o riducendo i salari, ma in misura
crescente … riducendo le ore di lavoro !
Il profitto si ottiene infatti oggigiorno sempre di più con la
precarizzazione dei posti di lavoro, che è una forma (perversa) di perfezionamento
del ciclo produttivo in funzione del mercato.
In breve: estrae più profitto il capitalista che ha la possibilità di
aumentare o diminuire la produzione immediatamente e secondo l'andamento della domanda del mercato,
licenziando ed assumento a piacimento senza vincoli, e che dunque non ha “tempi
morti” o “forza lavoro non pienamente occupata” e quindi può facilmente
aggirare il pericolo della sovrapproduzione.
Questa la novità che Marx non ha preso in esame ai suoi tempi, ma che
rientra benissimo nella sua teoria, basta adattare i termini dell’equazione
alle odierne condizioni.
Più complesso invece il problema del rapporto fra salari e prezzo delle
merci.
Nell’era dei monopoli e dell’intervento dello Stato (praticato in misura
tanto più massiccia ma dissimulata laddove i governanti ed i loro prezzolati
economisti predicano la liberalizzazione) è difficile individuare chiaramente
tutti meccanismi che entrano in gioco, dalla fiscalizzazione degli oneri
sociali agli sgravi fiscali di varia natura, ai cartelli, alle sovvenzioni a imprenditori singoli o interi
settori, non dimenticando le manovre della finanza, il mercato del capitale nelle borse e gli interventi statali nel
settore bancario per no citare che alcuni dei fattori che complicano – ma non
inficiano – la teoria del plusvalore.
Unico fattore innegabile e non dissimulabile resta, più vero che mai dai
tempi di Marx fino ad oggi, la disoccupazione, cioè “l’ esercito di riserva del
sistema di produzione capitalistico” .
Infine vorrei notare ancora un aspetto: Marx ha teorizzato il funzionamento
del sistema capitalistico nell’ottica della produzione di beni. Nelle
società contemporanee il settore dei servizi ha assunto una dimensione che un
secolo e mezzo or sono non era immaginabile.
La teoria del plusvalore è applicabile certamente anche a questo settore,
ma non in modo dogmatico e soltanto tenendo conto, nell’equazione, di tutti i fattori in
gioco e come pure della loro rispettiva valenza. Come si è visto sopra, il plusvalore può crescere addirittura riducendo il
tempo di lavoro guadagnando però in flessibilità (certo, sempre a spese dei
lavoratori, su questo punto non sono concesse deroghe).
Spesso purtroppo le critiche alla teoria
marxista vengono mosse prendendo gli esempi dal Capitale come dogmi, senza tener
conto che Marx li aveva espressamente presentati come astrazioni e modelli
utili a comprendere il meccanismo del plusvalore, ma non già ad esaurire tutti
gli aspetti connessi né tanto meno come profezie per l'eternità.
E dunque per fare un esempio, rientra nella sua teoria, se usata con
intelligenza, non soltanto la produzione ma anche la distruzione di
beni. L’impresa che demolisce un fabbricato, alla fine dell’operazione ha
distrutto un bene, magari ancora perfettamente utilizzabile ma non più conveniente.
L’imbecille potrebbe chiedersi: ma dov’è qui
il plusvalore ? L’investitore lo sa: è il valore aggiunto dell’area
sulla quale può costruire un nuovo edificio, che dalla vendita gli consentirà
di estrarre un profitto dall’investimento, che dunque comprende sia la fase costruttiva
del nuovo edificio che la precedente fase distruttiva della demolizione,
che ne è il presupposto.
L’impossibilità di stabilire un netto e fisso rapporto fra plusvalore e
tempo di lavoro e di produzione viene spesso addotto a critica della teoria
marxista, ma ciò rivela unicamente una comprensione superficiale e ristretta
della teoria, una comprensione rimasta ad un livello simile a quella dei
cannibali che dal missionario avevano appreso unicamente le forme esteriori
della preghiera e che prima di mangiarlo si fecero il segno della croce chiedendo
la benedizione del cibo che stavano per prendere.
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