L’irrisolto problema del conflitto Israele-Palestina: come la pace potrebbe ancor aessere possibile.
Chi ha studiato la storia della regione e ne conosce la geografia sa che non esistono ormai più soluzioni
indolori per alcuna delle parti in conflitto. Ma altrettanto bene sa che il
peggio è continuare a fingere che così non sia e che sia ancora praticabile la
vecchia formula dei “due Stati indipendenti e sovrani” così come la “comunità
internazionale” (che non si sa bene cosa sia visto che nei momenti difficili si
eclissa) continua a proporre. Una proposta che anche i rappresentati delle
popolazioni autoctone, cioè dei palestinesi da sempre residenti nella zona
continuano a riproporre negli infruttuosi tentativi di trattativa che ormai si
sa, non hanno la minima possibilità di sboccare in un accordo di pace. La
possibilità esisteva forse fino al 1967, quando l’area lasciata ai Palestinesi
dopo l’occupazione della loro terra e la creazione dello Stato d’Israele poteva ancora consentire la creazione di uno
Stato Palestinese, magari con scambio di territorio per evitare le enclavi fra
i due Stati. L’ultimo tentativo fu quello del gruppo cosiddetto di Ginevra, di
pacifisti palestinesi ed israeliani, che presentarono un piano di ripartizione territoriale che avrebbe
consentito, seppure con notevole riduzione dell’area palestinese rispetto al
piano dell’ONU del 1948, uno Stato palestinese vivibile.
I problemi non sarebbero però stati risolti nemmeno con questo piano,
poiché i Palestinesi scacciati con forza che dovettero abbandonare le loro case
e proprietà confiscate da Israele che erano allora secondo varie stime fra i
600.000 ed un milione, nel frattempo sono ormai quasi due milioni. Questi
rifugiati nei campi profughi degli Stati limitrofi (Libano in particolare) se
come desiderano e sarebbe giusto fossero autorizzati a ritornare renderebbero
minoranza la popolazione di origine ebraica in Israele, dove comunque oltre un
milione di arabi palestinesi sono rimasti
e non se ne andranno certamente anche se i più radicali estremisti che
pur fanno parte dei governi israeliani vorrebbero deportare anche loro.
Con la guerra dei “sei giorni” del 1967 Israele aveva occupato una vasta
area della Palestina e nonostante tale occupazione fosse stata immediatamente dichiarata
illegale dall’ONU che ne impose la
restituzione ai Palestinesi con innumerevoli risoluzioni, tutti i governi
israeliani hanno continuato l’occupazione aggravando il proprio agire illecito
in violazione del diritto internazionale con una sfrenata costruzione di
insediamenti che hanno reso di fatto impossibile la creazione di uno stato
indipendente palestinese su un territorio spezzettato.
Nel 1948 l’ONU aveva consentito
allo Stato d’Israele 56 % del territorio, attualmente ne è rimasto ai Palestinesi
intorno al 20 %, cioè nel frattempo Israele si è preso fino all’80 % circa
dell’area con un’occupazione in violazione di ogni accordo e diritto
internazionale.
A differenza di altre aree dove ad es. gli USA (sostenitori incondizionati
di ogni governo israeliano) si stracciano le vesti quando si muovono i confini
in maniera loro non gradita (v. Ucraina) – l’occupazione del territorio
palestinese non viene considerato un atto illegale. E’ la doppia morale
occidentale, di cui si è già avuta altrove prova (es. Kosovo separato di forza
dalla Serbia,per non parlare delle aggressioni all’Irak ed altre nazioni
indipendenti coi risultati che ora si vedono).
I tentativi degli USA di condurre i rappresentanti di Palestina e Israele
ad un trattato di pace non potevano
dunque che fallire miseramente visto che la mediazione era radicalmente di
parte e non super partes.
L’unica soluzione sensata raggiungibile con metodi incruenti è rimasta
ormai quella di uno Stato Unico Federale in cui Palestinesi e Israeliani abbiano
gli stessi diritti. E’ quanto chiedono ad esempio le associazioni pacifiste
israeliane che si oppongono alla politica razzista di apartheid dei loro governi. Un obiettivo che
richiederebbe rinunce dolorose ad Israele (nato come stato teocratico ebraico)
ma se praticato senza obbligo di rinunciare alla sovranità militare (potrebbero
tenersi esercito e bombe atomiche spartendo con i palestinesi con pari diritti
soltanto l’amministrazione civile. La maggioranza dei cittadini palestinesi pur
di non dover continuare a vivere in balia di un regime che pratica l’apartheid
sarebbero pronti a rinunciare ad uno stato proprio e si riconoscerebbero in uno
stato comune previo chiarimento delle rispettive autonomie federali. E’ certo
una via difficile da percorrere ma infinitamente meno dolorosa e costosa dei
continui confronti militari e delle repressioni.
E servirebbe ad isolare le organizzazioni terroristiche che attualmente invece ricevono una
crescente affluenza di disperati aderenti.
I Palestinesi probabilmente accetterebbero questa prospettiva, anche perché
non hanno alle spalle un sostegno come quello degli USA e si trovano a trattare
in posizione di incomparabile svantaggio. Agli israeliani pacifisti converrebbe
rinunciare all’attuale stato teocratico e razzista che mantiene l’area in
permanente stato di guerra e accettare invece uno stato comune riconoscendo la
verità storica: documentatamente i
Palestinesi erano da sempre i legittimi
abitanti dell’area (fino al 1948 erano 1 milione mezzo contro un solo mezzo
milione di ebrei immigrati coi quali coabitavano pacificamente).
La menzogna storica che servì di giustificazione alla fondazione dello
Stato di Israele (“una terra senza popolo per un popolo senza terra”) come
tutte le falsità ha condotto a problemi sempre più difficili da risolvere ed è
costata guerre e massacri continui. Anche gli ebrei residenti nei vari Paesi
del mondo non possono certo essere felici della politica israeliana poiché
vengono giocoforza identificati con un Paese i cui governi praticano
l’apartheid.
Ne va del buon nome della civiltà ebraica e della stessa sicurezza
personale, poiché ad ogni aggressione dell’esercito israeliano contro il popolo
palestinese seguono purtroppo attacchi a sinagoghe ed a cittadini ebrei nel
mondo.
A sua volta il popolo palestinese spinto alla disperazione per
l’occupazione delle proprie terre ed umiliato da atteggiamenti sprezzanti e
crasse violazioni dei più elementari diritti civili da parte di un regime
razzista viene spinto sempre più nelle braccia degli estremisti come Hamas,
unici che possono offrire l’illusione di un riscatto.
Che i governi israeliani non
abbiamo la minima intenzione di consentire la formazione di uno stato
palestinese è ormai dimostrato dai fatti, e la cosa più odiosa sono le continue
provocazioni attuate ad arte per far fallire anche i più modesti tentativi di trattativa (i metodi
sono sempre gli stessi, o dichiarazione di costruzione di nuovi insediamenti o
assassini mirati di militanti palestinesi).
Chi segue e conosce la situazione
si è da lungo reso conto che l’obiettivo finale di Israele è la conquista
integrale di tutta la Palestina , cosa praticata rendendo impossibile le
coltivazioni ai palestinesi (privandoli dell’acqua per irrigare, lasciando mano
libera ai coloni che aggrediscono i contadini palestinesi durante le
coltivazioni e la raccolta, che quasi ovunque è possibile unicamente con la
presenza di osservatori stranieri e di pacifisti israeliani che si
interpongono).
Ma questa politica non soltanto è ingiusta, illecita e criminale: è anche profondamente autolesionista poiché
una volta impadronitisi di tutta la Palestina gli israeliani saranno la
minoranza del Paese. Ed una minoranza può opprimere una maggioranza della
popolazione per un certo tempo ma alla fine si arriva alla resa dei conti e non
è garantito che la cosa avvenga quasi pacificamente come a suo tempo in
Sudafrica. Certamente i bombardamenti di Gaza in corso non sono una risposta
intelligente, sono infatti da mettere allo stesso livello delle disperate ma
insensate provocazioni di Hamas.
Spingere un popolo alla disperazione privandolo di qualunque speranza di
futuro degno di vivere non è mai stata una strategia vincente. La striscia di
Gaza per effetto del blocco israeliano è ad esempio considerata dai pacifisti
del mondo intero come “la più grande prigione a cielo aperto”. Da sempre i patrioti e partigiani sono
stati qualificati “terroristi” dagli occupanti, ma tutte le occupazioni di
territori altrui prima o poi finiscono: e le modalità ed il prezzo da pagare da
parte degli occupanti sono generalmente proporzionali al grado di crudeltà col
quale essi hanno imposto l’occupazione.
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