Freitag, 11. Juli 2014

  L’irrisolto problema del conflitto Israele-Palestina: come la pace potrebbe ancor aessere possibile.  



Chi ha studiato la storia della regione e ne conosce la geografia sa  che non esistono ormai più soluzioni indolori per alcuna delle parti in conflitto. Ma altrettanto bene sa che il peggio è continuare a fingere che così non sia e che sia ancora praticabile la vecchia formula dei “due Stati indipendenti e sovrani” così come la “comunità internazionale” (che non si sa bene cosa sia visto che nei momenti difficili si eclissa) continua a proporre. Una proposta che anche i rappresentati delle popolazioni autoctone, cioè dei palestinesi da sempre residenti nella zona continuano a riproporre negli infruttuosi tentativi di trattativa che ormai si sa, non hanno la minima possibilità di sboccare in un accordo di pace. La possibilità esisteva forse fino al 1967, quando l’area lasciata ai Palestinesi dopo l’occupazione della loro terra e la creazione dello Stato d’Israele  poteva ancora consentire la creazione di uno Stato Palestinese, magari con scambio di territorio per evitare le enclavi fra i due Stati. L’ultimo tentativo fu quello del gruppo cosiddetto di Ginevra, di pacifisti palestinesi ed israeliani, che presentarono un piano di  ripartizione territoriale che avrebbe consentito, seppure con notevole riduzione dell’area palestinese rispetto al piano dell’ONU del 1948, uno Stato palestinese vivibile.
I problemi non sarebbero però stati risolti nemmeno con questo piano, poiché i Palestinesi scacciati con forza che dovettero abbandonare le loro case e proprietà confiscate da Israele che erano allora secondo varie stime fra i 600.000 ed un milione, nel frattempo sono ormai quasi due milioni. Questi rifugiati nei campi profughi degli Stati limitrofi (Libano in particolare) se come desiderano e sarebbe giusto fossero autorizzati a ritornare renderebbero minoranza la popolazione di origine ebraica in Israele, dove comunque oltre un milione di arabi palestinesi sono rimasti  e non se ne andranno certamente anche se i più radicali estremisti che pur fanno parte dei governi israeliani vorrebbero deportare anche loro.
Con la guerra dei “sei giorni” del 1967 Israele aveva occupato una vasta area della Palestina e nonostante tale occupazione fosse stata immediatamente dichiarata illegale dall’ONU che ne  impose la restituzione ai Palestinesi con innumerevoli risoluzioni, tutti i governi israeliani hanno continuato l’occupazione aggravando il proprio agire illecito in violazione del diritto internazionale con una sfrenata costruzione di insediamenti che hanno reso di fatto impossibile la creazione di uno stato indipendente palestinese su un territorio spezzettato.
 Nel 1948 l’ONU aveva consentito allo Stato d’Israele 56 % del territorio, attualmente ne è rimasto ai Palestinesi intorno al 20 %, cioè nel frattempo Israele si è preso fino all’80 % circa dell’area con un’occupazione in violazione di ogni accordo e diritto internazionale.
A differenza di altre aree dove ad es. gli USA (sostenitori incondizionati di ogni governo israeliano) si stracciano le vesti quando si muovono i confini in maniera loro non gradita (v. Ucraina) – l’occupazione del territorio palestinese non viene considerato un atto illegale. E’ la doppia morale occidentale, di cui si è già avuta altrove prova (es. Kosovo separato di forza dalla Serbia,per non parlare delle aggressioni all’Irak ed altre nazioni indipendenti coi risultati che ora si vedono).
I tentativi degli USA di condurre i rappresentanti di Palestina e Israele ad un trattato di pace non  potevano dunque che fallire miseramente visto che la mediazione era radicalmente di parte e non super partes. 
L’unica soluzione sensata raggiungibile con metodi incruenti è rimasta ormai quella di uno Stato Unico Federale in cui Palestinesi e Israeliani abbiano gli stessi diritti. E’ quanto chiedono ad esempio le associazioni pacifiste israeliane che si oppongono alla politica razzista di apartheid  dei loro governi. Un obiettivo che richiederebbe rinunce dolorose ad Israele (nato come stato teocratico ebraico) ma se praticato senza obbligo di rinunciare alla sovranità militare (potrebbero tenersi esercito e bombe atomiche spartendo con i palestinesi con pari diritti soltanto l’amministrazione civile. La maggioranza dei cittadini palestinesi pur di non dover continuare a vivere in balia di un regime che pratica l’apartheid sarebbero pronti a rinunciare ad uno stato proprio e si riconoscerebbero in uno stato comune previo chiarimento delle rispettive autonomie federali. E’ certo una via difficile da percorrere ma infinitamente meno dolorosa e costosa dei continui confronti militari e delle repressioni.
E servirebbe ad isolare le organizzazioni terroristiche  che attualmente invece ricevono una crescente affluenza di disperati aderenti.   
I Palestinesi probabilmente accetterebbero questa prospettiva, anche perché non hanno alle spalle un sostegno come quello degli USA e si trovano a trattare in posizione di incomparabile svantaggio. Agli israeliani pacifisti converrebbe rinunciare all’attuale stato teocratico e razzista che mantiene l’area in permanente stato di guerra e accettare invece uno stato comune riconoscendo la verità storica: documentatamente  i Palestinesi erano da sempre  i legittimi abitanti dell’area (fino al 1948 erano 1 milione mezzo contro un solo mezzo milione di ebrei immigrati coi quali coabitavano pacificamente).
La menzogna storica che servì di giustificazione alla fondazione dello Stato di Israele (“una terra senza popolo per un popolo senza terra”) come tutte le falsità ha condotto a problemi sempre più difficili da risolvere ed è costata guerre e massacri continui. Anche gli ebrei residenti nei vari Paesi del mondo non possono certo essere felici della politica israeliana poiché vengono giocoforza identificati con un Paese i cui governi praticano l’apartheid.
Ne va del buon nome della civiltà ebraica e della stessa sicurezza personale, poiché ad ogni aggressione dell’esercito israeliano contro il popolo palestinese seguono purtroppo attacchi a sinagoghe ed a cittadini ebrei nel mondo.   
A sua volta il popolo palestinese spinto alla disperazione per l’occupazione delle proprie terre ed umiliato da atteggiamenti sprezzanti e crasse violazioni dei più elementari diritti civili da parte di un regime razzista viene spinto sempre più nelle braccia degli estremisti come Hamas,
unici che possono offrire l’illusione di un riscatto.
Che i  governi israeliani non abbiamo la minima intenzione di consentire la formazione di uno stato palestinese è ormai dimostrato dai fatti, e la cosa più odiosa sono le continue provocazioni attuate ad arte per far fallire anche i più  modesti tentativi di trattativa (i metodi sono sempre gli stessi, o dichiarazione di costruzione di nuovi insediamenti o assassini mirati di militanti palestinesi).
 Chi segue e conosce la situazione si è da lungo reso conto che l’obiettivo finale di Israele è la conquista integrale di tutta la Palestina , cosa praticata rendendo impossibile le coltivazioni ai palestinesi (privandoli dell’acqua per irrigare, lasciando mano libera ai coloni che aggrediscono i contadini palestinesi durante le coltivazioni e la raccolta, che quasi ovunque è possibile unicamente con la presenza di osservatori stranieri e di pacifisti israeliani che si interpongono).
Ma questa politica non soltanto è ingiusta, illecita e criminale:  è anche profondamente autolesionista poiché una volta impadronitisi di tutta la Palestina gli israeliani saranno la minoranza del Paese. Ed una minoranza può opprimere una maggioranza della popolazione per un certo tempo ma alla fine si arriva alla resa dei conti e non è garantito che la cosa avvenga quasi pacificamente come a suo tempo in Sudafrica. Certamente i bombardamenti di Gaza in corso non sono una risposta intelligente, sono infatti da mettere allo stesso livello delle disperate ma insensate provocazioni di Hamas.
Spingere un popolo alla disperazione privandolo di qualunque speranza di futuro degno di vivere non è mai stata una strategia vincente. La striscia di Gaza per effetto del blocco israeliano è ad esempio considerata dai pacifisti del mondo intero come “la più grande prigione a cielo aperto”.   Da sempre i patrioti e partigiani sono stati qualificati “terroristi” dagli occupanti, ma tutte le occupazioni di territori altrui prima o poi finiscono: e le modalità ed il prezzo da pagare da parte degli occupanti sono generalmente proporzionali al grado di crudeltà col quale essi hanno imposto l’occupazione.


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