In principio era il Verbo. Apologia degli studi linguistici.
Forse
inconsciamente e per mio spirito innato
di contraddizione all'assioma biblico, fra le lingue straniere che ho studiato domina il tedesco,
lingua in cui il verbo invece sta … alla fine (della frase).
Ma scherzi a
parte, il verbo inteso come lingua sta veramente all’origine di tutto, e non
soltanto per la razza umana, ma molto probabilmente anche negli animali,
ovviamente con codici di comunicazione diversi dalle lingue umane ma
probabilmente non meno complessi e di cui conosciamo ancora molto poco ma già
quel poco che si sa è sorprendente ed affascinate. Personalmente non sono che
orecchiante della comunicazione animale (a meno che non si estenda il concetto
agli “animali” politici, quelli dalle lunghe orecchie o dalla coda elicoidale,
nel caso ne so più di quanto vorrei).
Contrariamente a
quanto anche molti filologi credono, la parola e quindi la lingua precede
la letteratura,
nel senso che i capolavori della letteratura mondiale sono stati scritti da
autori che avevano un particolare interesse alla lingua: ad esempio per Elias
Canetti, Nobel della letteratura, la lingua tedesca in cui scrisse tutti i suoi
libri fu una tarda conquista, appresa fra l’altro con un metodo che farebbe
rabbrividire (smentandoli) tutti i teorici della didattica linguistica. In
altri casi è la combinazione o opposizione di codici linguistici a guidare
all’eccellenza letteraria: per Kafka il tedesco era sí la lingua parlata in
famiglia ma soprattutto quella deigli studi giuridici (odiati) e letterari (di
cui era appassionato), ma era anche un elemento di contrasto col ceco, che
altrettanto bene padroneggiava e con l’ebraico, che studiava senza
probabilmente mai utilizzare attivamente.
Il poeta
dialettale Carlo Porta, in una delle sue poesie satiriche in milanese diretta
contro un pedante che disprezzava il dialetto, centra pienamente il nocciolo
della questione:
I paroll
d’on lenguagg, car sur Gorell,
Hin ona
tavolozza de color,
Che ponn fa el
quader brutt e el ponn fa bell,
Segond la
maestria del pittor.
Senza idej, senza on cervell
Che regola i
paroll in del descor,
Tutt i
lenguagg del mond hin come quell
Che parla on
so umilissem servidor.
E sti idej,
sto bon gust, già el savarà
Che no hin
privativa di paês,
Ma di coo che
gh’han flemma de studià :
Tant l’è vera,
che, in bocca de usciuria,
El bellissem
lenguagg di Sienês,
L’è el
lenguagg pu cojon che mai ghe sia.
(1812)
Lo studio e la pratica delle lingue
contrariamente a quanto è purtroppo largamente pratica scolastica, dispiega la
sua funzione creatrice soprattutto attraverso il gioco con le parole e con le
regole.
Largo spazio nello sviluppo della fantasia e del
gusto letterario, cioè dell’arte del raccontare (che per dirla con U. Eco
è forse la più umana delle attività e forse l’unica che ci distingue
dagli animali) ha il rapporto ludico con più lingue. I “pasticci” linguistici,
i neologismi, le deliberate violazioni delle regole sono uno degli aspetti
linguistici creativi della grande letteratura, il pensiero va immediatamente a
Carlo emilio Gadda ed al suo “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” , con
gli inserti dialettali ed i neologismi che suggeriscono interpretazioni
alternative al significato apparente,
ma anche a Gabriel García Márquez (per la lettura del suo romanzo “Cien años de soledad “ serve un vocabolario
speciale) , fino all’estremo del “Finnegans Wake” di James Joyce, dove anche un
vocabolario specifico risulta insufficiente ed il lettore deve lavorare di fantasia
per ricostruire i significati.
Grande validità ha infine la poesia, ingiustamente
bandita dall’insegnamento insieme alle favole, in omaggio ad un' arrogante didattica e pedagogia modernizzante che
invano cerca di suscitare la sensibilità linguistica attraverso operazioni
formali, griglie di interpretazione e di analisi dei testi e “per troppa
concentrazione sugli alberi non vede il bosco”.
E anche la poesia in rima: in tutte le culture la
rima (o l’allitterazione o il ritmo, o altri aspetti formali derivanti dal
suono o dalla scansione sillabica, o dai toni come nelle lingue orientali –
cinese e vietnamita) è un elemento che gioca un ruolo importantissimo
nell’apprendimento linguistico e nello sviluppo della fantasia. Pensiamo un
attimo ai collegamenti fonetici di parole che non hanno alcun significato in
comune ma che possono suscitare nuove idee, ispirare addirittura racconti
(pensiamo a Gianni Rodari ed alla sua “Grammatica della fantasia”.
Un esperimento che ho potuto compiere alla fine
della mia carriera d’insegnante è stato il condurre gradualmente gli alunni
(classi elementari) alla capacità di esprimersi, volendolo, in rima.
Cercare una parola che consente la rima mantenendo
il significato comporta una serie di operazioni mentali che aiutano grandemente a sviluppare
la sensibilità linguistica: sull’asse sintattico impone prove di sostituzione
di posizione per piazzare alla fine le parole che possono rimare, sul piano
semantico la ricerca di sinonimi. Un esercizio utilissimo che col tempo diviene
quasi naturale, tanto che quasi non si nota a prima vista anche se in qualche
modo richiama l’attenzione: un ispettore in visita alla mia classe infatti aveva
notato che i miei alunni avevano “un modo di esprimersi alquanto peculiare ”,
al che avevo solo potuto rispondere “mi pare sia un aspetto da apprezzare”.
E credo che qualcuno dei
miei alunni ora all’università magari abbia ancora la grammatichetta in rima
che avevo scritto per loro in endecasillabi e che iniziava cosí: “Cari ragazzi, della frase sono il nerbo /coniugatemi
bene, sono il verbo”. Che in questo
caso avevo rimesso all’inizio.
Keine Kommentare:
Kommentar veröffentlichen