Sonntag, 6. Januar 2019

IV- Come si sviluppa il bilinguismo: varietà, tipologie e prassi educative.  

Esistono nella letteratura scientifica sull’argomento svariate classificazioni di “bilinguismo”  e “plurilinguismo”, ma in realtà queste hanno soprattutto valore per chi studia questo  fenomeno e per classificarlo deve creare parametri per individuarne le varie tipologie.
Ne elenco qui alcune sinteticamente come premessa ai consigli pratici educativi che a sua volta poi ripartirò in consigli ai genitori e suggerimenti agli insegnanti per il supporto a partire dall’età scolare (compresa la scuola materna). 
Un certo grado di bilinguismo primitivo, molto parziale e passivo è abbastanza diffuso: si tratta di parlanti che oltre alla prima lingua correntemente parlata ne comprendono una o più altre, ma solo passivamente, cioè senza essere in grado di utilizzarla pienamente nella comunicazione (es. l’inglese o il francese insegnato nella vecchia scuola media  negli anni ’60 …. e forse anche dopo): quello che si imparava serviva unicamente per esercizi di traduzione ma era pressoché inutilizzabile per comunicare con parlanti di queste lingue. In questo caso non si potrebbe a rigore nemmeno parlare di bilinguismo ma di informazioni sulla lingua straniera studiata. 
Una seconda tipologia è quella chiamata “bilinguismo consecutivo”: si impara prima una lingua cosiddetta “materna” (o, perché no, “paterna”) e poi, a partire dall’età scolare o dall’adolescenza (in scuole bilingui) o in età adulta (es. in seguito ad emigrazione in altri Paesi) si impara una seconda lingua divenendo in grado di utilizzarla nella comunicazione coi parlanti nativi. Chiaramente i gradi di padronanza saranno molto diversi:  si può raggiungere un buon grado di bilinguismo in scuole ad insegnamento bilingue, laddove le materie di studio sono in parte insegnate in parte in una ed in parte nell’altra lingua.
Anche da adulti uno studio intensivo può condurre ad una padronanza completa di una lingua straniera (ad es. negli istituti di interpretariato, ma dopo anni di studio). Difficilmente però si tratterà di una padronanza  paragonabile a quella di un parlante nativo.
Anche nel caso migliore sarà pur sempre una lingua “aggiuntiva” e raramente si sostituirà alla lingua materna. Casi del genere esistono ma sono rari: a titolo esemplificativo ne cito un paio. Il più noto, lo scrittore Joseph Conrad, di lingua materna polacca, iniziò ventenne a studiare l’inglese e scrisse poi in questa lingua d’adozione numerosi romanzi divenuti classici , es. Lord Jim o Nostromo. Aveva studiato il francese da più giovane e suo padre aveva tradotto Shakespeare in polacco, dunqe si può supporre che abbia avuto una certa esposizione all’inglese anche nell’infanzia, ma lo studio sistematico dell’inglese lo iniziò ad un’età in cui difficilmente si può conseguire una padronanza assoluta: lui ci riuscì.
Anche il ceco Mílan Kundera ,dopo aver pubblicato molti romanzi nella sua lingua materna, (es.: L’insostenibile leggerezza dell’essere ), si era trasferito in Francia nel 1975 come insegnante universitario, ed all’età di 64 anni ha cominciato a scrivere e pubblicare in francese.
Ma si tratta appunto di casi molto particolari, non rari nel mondo dei letterati, dove il bilinguismo ed il plurilinguismo sembra essere la regola, anche se raramente abbiamo il caso di autori che hanno pubblicato in più di una delle lingue pienamente padroneggiate.

I casi che più ci interessano in campo educativo sono però quelli del “bilinguismo simultaneo”,  cioè appreso fin dalla nascita. 
Curiosamente nessuno si è mai posto domande sul come insegnare ai bambini la lingua cosiddetta “materna”: sembra che questo apprendimento avvenga comunque, a prescindere dagli sforzi o meno dei genitori. Nelle riviste specializzate per i neo-genitori si trovano infatti consigli di ogni genere, ma  per quanto riguarda l’apprendimento della lingua i consigli, le rare volte che si trovano, sono generici  per non dire banali. In effetti anche la ricerca psicologica e linguistica è ben lontana dal  poter comprendere e descrivere come avviene nei bambini l’apprendimento linguistico. E forse è addirittura meglio così: se i bambini dovessero imparare a camminare sulla base di un insegnamento scolastico probabilmente sarebbero in pochi a poterlo fare senza problemi. Fortunatamente la natura ha congegnato il cervello umano in modo che alcuni apprendimenti avvengano quasi per istinto, come per gli animali. Dico quasi, poiché per la lingua  è necessaria l’esposizione a modelli che sono normalmente svariati (la lingua dei genitori, dei nonni, di altri parenti, di altri coetanei) .
Premessa che un apprendimento basilare avviene anche sulla base di una ridotta esposizione alla lingua (ci sono anche genitori che parlano poco ai figli perché aspettano che … abbiano imparato a parlare), la qualità della lingua che i bambini parlano quando iniziano la scolarità è già molto diversa, e proprio lì si verifica lo svantaggio o il vantaggio per l’intera carriera scolastica, poiché ad es. bambini che abbiano solo un registro linguistico limitato ai bisogni materiali (nominare oggetti ed operazioni della vita quotidiana) si troveranno grandemente svantaggiati rispetto ai coetanei che per loro fortuna hanno appreso altri registri linguistici ad esempio attraverso la lettura fatta loro dai genitori, e quindi sono in grado di parlare anche di cose non reali, e soprattutto a riflettere sull’uso delle parole.  
Se questo è vero per la prima lingua, tanto maggiore sarà lo sviluppo cognitivo –linguistico dei bambini se la stessa strategia educativa avviene per così dire su due fronti, cioè con due lingue. Il caso migliore si è detto, è il principio “una persona – una lingua”, ma non è un principio esclusivo. Uno o ambedue i genitori, premesso l’uso principale di una delle due lingue, può benissimo utilizzare anche l’altra in certe occasioni, ad esempio nella lettura.
Ho sperimentato personalmente coi figli  la lettura di racconti prima in una e poi, in momenti diversi, nell’altra lingua. In particolare mia moglie, tedesca, essendo la persona con cui i figli trascorrevano la maggior parte del tempo, leggeva ogni tanto anche libri italiani ai figli.
Fondamentale per il successo dell’educazione bilingue è che i figli si rendano conto immediatamente (e non certo per obiettivi futuri evidenti ma lontani) che ambedue le lingue sono loro necessarie ed utili: per parlare coi nonni ad es. o con coetanei che parlano unicamente l’altra lingua. Ma su questo aspetto non si deve essere rigidi: si possono creare anche situazioni artificiali in cui si decide di parlare tutti a turno l’una o l’altra lingua.
In particolare il genitore che ha minor tempo a disposizione per parlare la propria lingua ai figli dovrà organizzare una specie di rituale costante in cui parla la propria lingua ai figli, ad esempio giocando con loro o leggendo o raccontando storie inventate se ne ha capacità e talento. L’uso di media (CD, filmini o programmi televisivi) nella lingua “a minor esposizione” è un utile supporto, i materiali si trovano facilmente in internet o in negozi specializzati. Nulla può comunque sostituire il parlare direttamente coi figli.
Al  riguardo occorre tener presente che salvo casi eccezionali, ci sarà sempre una lingua dominante, quella del Paese di residenza o del genitore che trascorre più tempo coi figli: tendenzialmente ed indipendentemente dalla lingua diversa parlata dall’altro genitore, sarà questa la lingua che cercheranno di utilizzare i figli. Questo è un fatto naturale e non deve  assolutamente essere visto come un problema: importante è continuare ad usare l’altra lingua. Nemmeno l’uso misto di parole di ambedue le lingue è un problema: è una strategia comunicativa: il bambino usa la parola che in quel momento gli è più famigliare, al più si può ricordagli il corrispondente nell’altra lingua.
Contrariamente a quanto affermato senza verificabili prove empiriche in alcuni studi nel secolo scorso, la presunta “confusione” o “mescolanza” di lingue nei parlanti bi- o plurilingui non è che un fenomeno passeggero o limitato a casi di apprendimento molto limitato (es. lingua straniera appresa da adulti unicamente in ambiente di lavoro e quindi limitata alle necessità comunicative più elementari e senza alcun altro supporto  di insegnamento sistematico).
Al contrario, tutti gli studi su campioni significativi condotti negli anni più recenti hanno riconfermato quanto si sapeva da sempre, e cioè che la scelta della lingua con cui parlare con un interlocutore, nella mente del parlante è chiaramente isolata da tutte le altre lingue conosciute fin dalla prima frase. Soltanto se mancano termini specifici si ricorre ad un prestito di vocaboli da un’altra lingua, se si presume che l’ascoltatore la conosca (es. “Domani vado a ritirare il tesserino alla <Krankenkasse> ”  nel dialogo fra due italiani in Germania ha una sua motivazione sensata poiché la traduzione letterale in italiano di questo termine (che potrebbe essere “cassa malattia”) non ha corrispondente in Italia, dove appunto c’è un sistema sanitario  pubblico e non esistono “casse malattia” private come in Germania. Dunque per italiani che vivono in Germania il ricorso ad un termine specifico nella lingua locale pur parlando in italiano è inevitabile. 
Per i bambini o anche più tardi nella scuola, con i progressi nell’apprendimento le “interferenze” gradualmente spariscono, a meno che non siano motivate come nel caso sopra illustrato.   
Per la seconda lingua dunque non mancano studi e suggerimenti, ma quasi sempre si tratta o di un elenco dei vantaggi dell’educazione bilingue (grazie, lo sapevamo !) seguiti da pochi consigli pratici. Anche in questa sede  oltre ai pochi suggerimenti già ripetuti  in generale non è possibile indicare modalità più differenziate poiché la scelta delle strategie educative in campo linguistico dipende essenzialmente da situazioni personali molto variabili: tempo disponibile da parte dei genitori, grado di padronanza delle rispettive lingue, possibilità di incontro di parlanti della lingua non locale, situazione più facile in grandi città e più rara in piccoli centri, presenza o meno di scuole bilingui o almeno di corsi della lingua minoritaria parlata da uno dei due genitori.
Il caso più semplice è certamente quello dei due genitori che parlano la lingua minoritaria nel Paese di immigrazione: qui la migliore strategia è l’utilizzo di questa lingua come linguaggio famigliare e la ricerca di occasioni di esposizione alla lingua locale al più presto possibile (già prima della scuola materna).
Uno dei problemi che di regola segnalano queste famiglie è che i figli dopo l’ingresso nella scuola materna o al più tardi nelle scuola iniziano ad utilizzare la lingua locale anche coi genitori. Si tratta di un fenomeno naturale, che non va sanzionato ma accettato continuando  però ad utilizzare la lingua fino ad allora parlata coi figli.
Diplomaticamente i genitori possono cogliere l’occasione per trasmettere ai figli i termini corrispondenti al concetto e non le traduzioni letterali (ad esempio per “Elternabend”   si dirà “riunione dei genitori nella scuola”  e non certo “serata dei genitori”).   A livelli più avanzati si potranno anche mettere in evidenza i “falsi cugini linguistici”, cioè i termini che nelle due lingue si assomigliano ma hanno significato diverso, ad es. “Rektor” non sarà il “rettore ma il “preside o direttore didattico” o “dirigente scolastico” se si vuole essere ancor più aggiornati seguendo l’evoluzione terminologica della scuola italiana.
Meno frequente è  il caso di un genitore che parla la lingua locale mentre l’altro parla la lingua minoritaria o straniera. Qui la strategia più semplice ed efficace è che ciascuno dei genitori parla coi figli la propria lingua “materna”.
Nel caso molto più raro di genitori la cui lingua materna corrisponde a quella locale del Paese di residenza, ma che desiderano educare i figli in modo bilingue poiché ambedue o uno dei due padroneggia in modo soddisfacente un’altra lingua, la strategia più promettente è la frequentazione di altre persone che parlano quest’altra lingua, coinvolgendo i figli nella conversazione. In aggiunta o – con minore efficacia e maggior impegno – si devono poi creare momenti rituali quotidiani in cui si utilizza coi figli l’altra lingua.
Oggigiorno si diffondo in sempre maggior numero scuole materne o  scuole elementari bilingui, e dove esiste questa possibilità l’educazione bilingue iniziata in famiglia ha le migliori prospettive di realizzarsi.
Dove esistono corsi cosiddetti di “lingua materna”  - evidentemente per il numero ridotto di ore meno efficaci di una scuola bilingue -  è consigliabile la frequenza. Poiché si tratta di un impegno aggiuntivo, è indispensabile creare e sostenere la motivazione negli alunni: più che ore aggiuntive di insegnamento scolastico questi corsi si devono svolgere come momenti ricorrenti di incontro (normalmente saranno alunni di scuole diverse che si trovano una o due volte la settimana per i corsi) e contenere una parte ludica e creativa (teatro, canti, disegno, danza, ecc.) poiché non devono apparire agli occhi degli alunni come un obbligo scolastico supplementare  di cui a quell’età non possono riconoscere né il senso né l’importanza.

Per concludere, poiché ogni ulteriore suggerimento non può che essere fornito conoscendo la specifica situazione famigliare, rimando ad un blog di prossima apertura:
<circlemultiliguisticprague.blogspot.com>   in cui raccoglierò i contributi europei ed extra-europei sul tema plurilisguismo ed educazione multilingue e multiculturale.
Indico qui anche un indirizzo e-mail (libertango2012@libero.it) per chiunque volesse contattarmi per ottenere suggerimenti (miei o  di colleghi e altri studiosi di cui indicherò i siti o le pubblicazioni). 

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