IV- Come si sviluppa il bilinguismo: varietà, tipologie e prassi educative.
Esistono nella letteratura scientifica sull’argomento svariate classificazioni di “bilinguismo” e “plurilinguismo”, ma in realtà queste hanno soprattutto valore per chi studia questo fenomeno e per classificarlo deve creare parametri per individuarne le varie tipologie.
Ne elenco qui alcune sinteticamente come premessa ai consigli pratici
educativi che a sua volta poi ripartirò in consigli ai genitori e suggerimenti
agli insegnanti per il supporto a partire dall’età scolare (compresa la scuola
materna).
Un certo grado di bilinguismo primitivo, molto parziale e passivo è
abbastanza diffuso: si tratta di parlanti che oltre alla prima lingua
correntemente parlata ne comprendono una o più altre, ma solo passivamente,
cioè senza essere in grado di utilizzarla pienamente nella comunicazione (es.
l’inglese o il francese insegnato nella vecchia scuola media negli anni ’60 …. e forse anche dopo):
quello che si imparava serviva unicamente per esercizi di traduzione ma era
pressoché inutilizzabile per comunicare con parlanti di queste lingue. In
questo caso non si potrebbe a rigore nemmeno parlare di bilinguismo ma di
informazioni sulla lingua straniera studiata.
Una seconda tipologia è quella chiamata “bilinguismo consecutivo”:
si impara prima una lingua cosiddetta “materna” (o, perché no, “paterna”) e
poi, a partire dall’età scolare o dall’adolescenza (in scuole bilingui) o in
età adulta (es. in seguito ad emigrazione in altri Paesi) si impara una seconda
lingua divenendo in grado di utilizzarla nella comunicazione coi parlanti
nativi. Chiaramente i gradi di padronanza saranno molto diversi: si può raggiungere un buon grado di
bilinguismo in scuole ad insegnamento bilingue, laddove le materie di studio
sono in parte insegnate in parte in una ed in parte nell’altra lingua.
Anche da adulti uno studio intensivo può condurre ad una padronanza
completa di una lingua straniera (ad es. negli istituti di interpretariato, ma
dopo anni di studio). Difficilmente però si tratterà di una padronanza paragonabile a quella di un parlante nativo.
Anche nel caso migliore sarà pur sempre una lingua “aggiuntiva” e raramente
si sostituirà alla lingua materna. Casi del genere esistono ma sono rari: a
titolo esemplificativo ne cito un paio. Il più noto, lo scrittore Joseph
Conrad, di lingua materna polacca, iniziò ventenne a studiare l’inglese e
scrisse poi in questa lingua d’adozione numerosi romanzi divenuti classici ,
es. Lord Jim o Nostromo. Aveva studiato il francese da più
giovane e suo padre aveva tradotto Shakespeare in polacco, dunqe si può
supporre che abbia avuto una certa esposizione all’inglese anche nell’infanzia,
ma lo studio sistematico dell’inglese lo iniziò ad un’età in cui difficilmente
si può conseguire una padronanza assoluta: lui ci riuscì.
Anche il ceco Mílan Kundera ,dopo aver pubblicato molti romanzi
nella sua lingua materna, (es.: L’insostenibile leggerezza dell’essere
), si era trasferito in Francia nel 1975 come insegnante universitario, ed
all’età di 64 anni ha cominciato a scrivere e pubblicare in francese.
Ma si tratta appunto di casi molto particolari, non rari nel mondo dei
letterati, dove il bilinguismo ed il plurilinguismo sembra essere la regola,
anche se raramente abbiamo il caso di autori che hanno pubblicato in più di una
delle lingue pienamente padroneggiate.
I casi che più ci interessano in campo educativo sono però quelli del “bilinguismo
simultaneo”, cioè appreso fin dalla
nascita.
Curiosamente nessuno si è mai posto domande sul come insegnare ai bambini
la lingua cosiddetta “materna”: sembra che questo apprendimento avvenga
comunque, a prescindere dagli sforzi o meno dei genitori. Nelle riviste
specializzate per i neo-genitori si trovano infatti consigli di ogni genere,
ma per quanto riguarda l’apprendimento
della lingua i consigli, le rare volte che si trovano, sono generici per non dire banali. In effetti anche la
ricerca psicologica e linguistica è ben lontana dal poter comprendere e descrivere come avviene nei bambini
l’apprendimento linguistico. E forse è addirittura meglio così: se i bambini
dovessero imparare a camminare sulla base di un insegnamento scolastico
probabilmente sarebbero in pochi a poterlo fare senza problemi. Fortunatamente
la natura ha congegnato il cervello umano in modo che alcuni apprendimenti
avvengano quasi per istinto, come per gli animali. Dico quasi, poiché per la
lingua è necessaria l’esposizione a
modelli che sono normalmente svariati (la lingua dei genitori, dei nonni, di
altri parenti, di altri coetanei) .
Premessa che un apprendimento basilare avviene anche sulla base di una
ridotta esposizione alla lingua (ci sono anche genitori che parlano poco ai
figli perché aspettano che … abbiano imparato a parlare), la qualità della
lingua che i bambini parlano quando iniziano la scolarità è già molto diversa,
e proprio lì si verifica lo svantaggio o il vantaggio per l’intera carriera
scolastica, poiché ad es. bambini che abbiano solo un registro linguistico
limitato ai bisogni materiali (nominare oggetti ed operazioni della vita
quotidiana) si troveranno grandemente svantaggiati rispetto ai coetanei che per
loro fortuna hanno appreso altri registri linguistici ad esempio attraverso la
lettura fatta loro dai genitori, e quindi sono in grado di parlare anche di
cose non reali, e soprattutto a riflettere sull’uso delle parole.
Se questo è vero per la prima lingua, tanto maggiore sarà lo sviluppo
cognitivo –linguistico dei bambini se la stessa strategia educativa avviene per
così dire su due fronti, cioè con due lingue. Il caso migliore si è detto, è il
principio “una persona – una lingua”, ma non è un principio esclusivo. Uno o
ambedue i genitori, premesso l’uso principale di una delle due lingue, può
benissimo utilizzare anche l’altra in certe occasioni, ad esempio nella
lettura.
Ho sperimentato personalmente coi figli
la lettura di racconti prima in una e poi, in momenti diversi,
nell’altra lingua. In particolare mia moglie, tedesca, essendo la persona con
cui i figli trascorrevano la maggior parte del tempo, leggeva ogni tanto anche
libri italiani ai figli.
Fondamentale per il successo dell’educazione bilingue è che i figli si
rendano conto immediatamente (e non certo per obiettivi futuri evidenti ma
lontani) che ambedue le lingue sono loro necessarie ed utili: per parlare coi
nonni ad es. o con coetanei che parlano unicamente l’altra lingua. Ma su questo
aspetto non si deve essere rigidi: si possono creare anche situazioni
artificiali in cui si decide di parlare tutti a turno l’una o l’altra lingua.
In particolare il genitore che ha minor tempo a disposizione per parlare la
propria lingua ai figli dovrà organizzare una specie di rituale costante in cui
parla la propria lingua ai figli, ad esempio giocando con loro o leggendo o
raccontando storie inventate se ne ha capacità e talento. L’uso di media (CD,
filmini o programmi televisivi) nella lingua “a minor esposizione” è un utile
supporto, i materiali si trovano facilmente in internet o in negozi
specializzati. Nulla può comunque sostituire il parlare direttamente coi figli.
Al riguardo occorre tener presente
che salvo casi eccezionali, ci sarà sempre una lingua dominante, quella del
Paese di residenza o del genitore che trascorre più tempo coi figli:
tendenzialmente ed indipendentemente dalla lingua diversa parlata dall’altro
genitore, sarà questa la lingua che cercheranno di utilizzare i figli. Questo è
un fatto naturale e non deve
assolutamente essere visto come un problema: importante è continuare ad
usare l’altra lingua. Nemmeno l’uso misto di parole di ambedue le lingue è un
problema: è una strategia comunicativa: il bambino usa la parola che in quel
momento gli è più famigliare, al più si può ricordagli il corrispondente
nell’altra lingua.
Contrariamente a quanto affermato senza verificabili prove empiriche in
alcuni studi nel secolo scorso, la presunta “confusione” o “mescolanza” di
lingue nei parlanti bi- o plurilingui non è che un fenomeno passeggero o
limitato a casi di apprendimento molto limitato (es. lingua straniera appresa
da adulti unicamente in ambiente di lavoro e quindi limitata alle necessità
comunicative più elementari e senza alcun altro supporto di insegnamento sistematico).
Al contrario, tutti gli studi su campioni significativi condotti negli anni
più recenti hanno riconfermato quanto si sapeva da sempre, e cioè che la scelta
della lingua con cui parlare con un interlocutore, nella mente del parlante è
chiaramente isolata da tutte le altre lingue conosciute fin dalla prima frase.
Soltanto se mancano termini specifici si ricorre ad un prestito di vocaboli da
un’altra lingua, se si presume che l’ascoltatore la conosca (es. “Domani vado a
ritirare il tesserino alla <Krankenkasse> ” nel dialogo fra due italiani in Germania ha
una sua motivazione sensata poiché la traduzione letterale in italiano di
questo termine (che potrebbe essere “cassa malattia”) non ha corrispondente in
Italia, dove appunto c’è un sistema sanitario
pubblico e non esistono “casse malattia” private come in Germania.
Dunque per italiani che vivono in Germania il ricorso ad un termine specifico
nella lingua locale pur parlando in italiano è inevitabile.
Per i bambini o anche più tardi nella scuola, con i progressi
nell’apprendimento le “interferenze” gradualmente spariscono, a meno che non
siano motivate come nel caso sopra illustrato.
Per la seconda lingua dunque non mancano studi e suggerimenti, ma quasi
sempre si tratta o di un elenco dei vantaggi dell’educazione bilingue (grazie,
lo sapevamo !) seguiti da pochi consigli pratici. Anche in questa sede oltre ai pochi suggerimenti già
ripetuti in generale non è possibile
indicare modalità più differenziate poiché la scelta delle strategie educative
in campo linguistico dipende essenzialmente da situazioni personali molto
variabili: tempo disponibile da parte dei genitori, grado di padronanza delle
rispettive lingue, possibilità di incontro di parlanti della lingua non locale,
situazione più facile in grandi città e più rara in piccoli centri, presenza o
meno di scuole bilingui o almeno di corsi della lingua minoritaria parlata da
uno dei due genitori.
Il caso più semplice è certamente quello dei due genitori che parlano la
lingua minoritaria nel Paese di immigrazione: qui la migliore strategia è
l’utilizzo di questa lingua come linguaggio famigliare e la ricerca di
occasioni di esposizione alla lingua locale al più presto possibile (già prima
della scuola materna).
Uno dei problemi che di regola segnalano queste famiglie è che i figli dopo
l’ingresso nella scuola materna o al più tardi nelle scuola iniziano ad
utilizzare la lingua locale anche coi genitori. Si tratta di un fenomeno
naturale, che non va sanzionato ma accettato continuando però ad utilizzare la lingua fino ad allora
parlata coi figli.
Diplomaticamente i genitori possono cogliere l’occasione per trasmettere ai
figli i termini corrispondenti al concetto e non le traduzioni letterali (ad
esempio per “Elternabend” si
dirà “riunione dei genitori nella scuola”
e non certo “serata dei genitori”).
A livelli più avanzati si potranno anche mettere in evidenza i “falsi
cugini linguistici”, cioè i termini che nelle due lingue si assomigliano ma
hanno significato diverso, ad es. “Rektor” non sarà il “rettore ma il
“preside o direttore didattico” o “dirigente scolastico” se si vuole essere ancor
più aggiornati seguendo l’evoluzione terminologica della scuola italiana.
Meno frequente è il caso di un
genitore che parla la lingua locale mentre l’altro parla la lingua minoritaria
o straniera. Qui la strategia più semplice ed efficace è che ciascuno dei
genitori parla coi figli la propria lingua “materna”.
Nel caso molto più raro di genitori la cui lingua materna corrisponde a
quella locale del Paese di residenza, ma che desiderano educare i figli in modo
bilingue poiché ambedue o uno dei due padroneggia in modo soddisfacente
un’altra lingua, la strategia più promettente è la frequentazione di altre
persone che parlano quest’altra lingua, coinvolgendo i figli nella
conversazione. In aggiunta o – con minore efficacia e maggior impegno – si devono
poi creare momenti rituali quotidiani in cui si utilizza coi figli l’altra
lingua.
Oggigiorno si diffondo in sempre maggior numero scuole materne o scuole elementari bilingui, e dove esiste
questa possibilità l’educazione bilingue iniziata in famiglia ha le migliori
prospettive di realizzarsi.
Dove esistono corsi cosiddetti di “lingua materna” - evidentemente per il numero ridotto di ore
meno efficaci di una scuola bilingue -
è consigliabile la frequenza. Poiché si tratta di un impegno aggiuntivo,
è indispensabile creare e sostenere la motivazione negli alunni: più che ore
aggiuntive di insegnamento scolastico questi corsi si devono svolgere come
momenti ricorrenti di incontro (normalmente saranno alunni di scuole diverse
che si trovano una o due volte la settimana per i corsi) e contenere una parte
ludica e creativa (teatro, canti, disegno, danza, ecc.) poiché non devono
apparire agli occhi degli alunni come un obbligo scolastico supplementare di cui a quell’età non possono riconoscere
né il senso né l’importanza.
Per concludere, poiché ogni ulteriore suggerimento non può che essere
fornito conoscendo la specifica situazione famigliare, rimando ad un blog di
prossima apertura:
<circlemultiliguisticprague.blogspot.com> in cui raccoglierò i contributi europei ed extra-europei sul
tema plurilisguismo ed educazione multilingue e multiculturale.
Indico qui anche un indirizzo e-mail (libertango2012@libero.it) per
chiunque volesse contattarmi per ottenere suggerimenti (miei o di colleghi e altri studiosi di cui
indicherò i siti o le pubblicazioni).
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