II. Bilinguismo: come i bambini si impadroniscono del linguaggio. (Parte seconda)
Tutti i bambini imparano almeno una lingua (non faremo qui distinzioni fra
lingue o dialetti da punto di vista della funzione comunicativa e degli stadi
di sviluppo del linguaggio è indifferente quale codice linguistico viene
usato). Gli studi sul come si sviluppa la padronanza del linguaggio da parte
dei bambini sono numerosissimi, ma la maggior parte di essi si limita a
stabilire le tappe facilmente osservabili da qualunque genitore: inizialmente
i bambini emettono suoni o combinazioni
di vocali apparentemente prive di significato , poi verso un anno d’età
cominciano con le prime parole che poi fino verso i tre anni continuano a combinare
in funzione di frasi dapprima senza uso di regole sintattiche o di preposizioni
o congiunzioni, poi con adeguamento graduale alle regole ed un rapido ampliamento del vocabolario, che verso i
cinque anni consiste di alcune migliaia
di parole.
Sebbene questi
progressi graduali corrispondano in generale a determinate età, tuttavia
possono esservi differenze anche notevoli fra bambini che apprendono una stessa
lingua anche a parità di condizioni, e gli eventuali “ritardi” rispetto
alla cosiddetta “norma” non sono sempre
patologici. Un esempio notissimo: Albert Einstein non iniziò a parlare che a 4
anni, ma ciò non gli impedì di divenire un grande fisico e matematico. Importante è l’esposizione costante alla
lingua, cioè che i genitori parlino coi figli (mentre invece mettere i bambini
davanti al televisore è poco utile e generalmente negativo).
Nonostante il
gran numero di studi sull’argomento ben poco si sa esattamente sul come i
bambini apprendono la lingua. Certo è unicamente, che il cervello umano è predisposto a questo apprendimento, ed
infatti anche un’esposizione molto limitata al linguaggio, ogni bambino impara
qualunque lingua. Magari in ritardo rispetto ad altri, che hanno avuto più
occasioni di ascoltare genitori o altri parlanti, ma salvo casi patologici la
lingua ad un certo punto appare e il bambino è in grado di combinare parole e
produrre secondo le regole della lingua anche frasi che non ha mai sentito.
Alcuni studiosi hanno avanzato l’ipotesi che il linguaggio sia “innato” e che
una volta forniti gli elementi essenziali (esempi sul come funzionano le
regole, che ovviamente il bambino estrae dalle frasi che ascolta) il linguaggio
emerga come se fosse stato sempre presente nella mente del bambino. Un’ipotesi
suggestiva che ha in parte qualcosa di vero: in fondo ogni lingua altro non è
che la combinazione di suoni in parole secondo regole specifiche (vocali e
consonanti, sillabe, parole, frasi, combinate con una certa intonazione e
cadenza). Il bambino inizia imitando e scopre poi gradualmente le modalità con
cui gli adulti eseguono le combinazioni e diviene col tempo in grado di
“generare” non soltanto le frasi che ha ascoltato ma anche altre nuove mai
udite. Dunque l’apprendimento delle lingue non avviene semplicemente per
imitazione, ma è un processo creativo. Molto precocemente ogni bambino adegua i
suoni che produce e poi le parole secondo i modelli dei parlanti che gli stanno
intorno, ma poi sviluppa il proprio linguaggio per esprimere i propri desideri
e stati d’animo e in modo pragmatico per comunicare ciò che vuole ed ottenere ciò che desidera.
La funzione del
linguaggio non finisce però qui. Insieme alla lingua il bambino apprende a
conoscere il mondo ed a sviluppare concetti per capire e compiere ragionamenti.
Sui rapporti fra pensiero e linguaggio gli studi non si contano, ma nonostante
i metodi più moderni di ricerca ben poco si sa esattamente sui rapporti
reciproci. Alcuni ricercatori avevano ipotizzato che la povertà del linguaggio
coincidesse anche con una scarsa intelligenza o limitata capacità di
ragionamento.
Ma è stato
dimostrato ampiamente il contrario: anche chi possiede un linguaggio “povero” (“codice ristretto”) è in grado di
compiere ragionamenti esattamente come chi possiede un ampio e differenziato
vocabolario (“codice elaborato”). Avrà sì difficoltà ad esprimere il proprio
pensiero, perché gli mancano i termini specifici, ma ciò non significa che il
suo pensiero sia limitato come il suo linguaggio. Questo per quanto riguarda la
vita quotidiana. Per apprendimenti più complessi ovviamente servono i termini
specifici: per parlare di algebra o di chimica devo conoscere il linguaggio
matematico o i nomi degli elementi e dei concetti per descrivere le combinazioni matematiche o chimiche, così come
per comporre devo conoscere le regole dell’armonia. Ma qui si entra nel campo
specialistico, al quale si arriva partendo dal linguaggio ordinario per
addizione di termini e per loro differenziazione. Ad es. per l’uso quotidiano
ci basta conoscere la differenza fra il rosso ed il verde, ma un pittore deve
invece conoscere le dozzine di variazioni
e sfumature di questi colori. A questo punto si comprende bene che
l’apprendimento linguistico dura … tutta la vita, cioè non si esaurisce ad una
certa età ma continua finché si apprendono cose nuove.
E se
l’apprendimento del linguaggio da parte del bambino avviene come abbiamo sopra
esposto, nulla vieta che si possano apprendere contemporaneamente lingue
diverse, ed infatti questo è il caso più frequente in tutto il mondo: le
rilevazioni statistiche dimostrano che
almeno la metà dell’umanità –attualmente oltre tre miliardi e
mezzo- è bilingue, ed un’alta percentuale parla correntemente
tre o più lingue diverse.
La concezione
purtroppo ancora diffusa che il caso
normale sia l’apprendimento di una sola lingua è il risultato di una
aberrazione nazionalistica, emersa nell’era moderna con la formazione degli
Stati nazionali: nell’antichità e ancora nell’ Ottocento invece, chiunque non
vivesse in un paesino isolato, giocoforza padroneggiava in qualche misura più
di una lingua: quella locale (per chiarezza chiamiamola “dialetto”), quella
regionale che era una variante più o meno lontana ed infine lingue di stranieri
con cui veniva a contatto. Certamente si trattava di conoscenza limitata, cioè
delle cosiddette “lingue franche”, usate per scopi pratici di comunicazione, un
po’ come l’inglese usato oggigiorno dai turisti e negli scambi economici
internazionali, che è una versione pratica
ma una “sorella molto povera e maltrattata” dell’idioma nel quale hanno scritto i grandi letterati e
che viene utilizzato nei Paesi di lingua inglese.
Ma tornando al
modo di apprendimento linguistico dei bambini dobbiamo aggiungere un punto
spesso ignorato dagli specialisti che studiano il bilinguismo: se nella crescita il bambino evolve in tutti
gli altri aspetti cognitivi, nel settore linguistico c’è insieme all’evoluzione
anche un’inevitabile … involuzione. Il bambino esposto ad una sola lingua
infatti perde gradualmente la capacità di percepire i suoni estranei a questa
lingua. Questa perdita avviene molto
precocemente, infatti mentre alla nascita i bambini sarebbero teoricamente in
grado di percepire distintamente i suoni di tutte le lingue (ed infatti
riconoscono molto bene la voce dei genitori distinguendola da quella di
chiunque altro), tra i sei mesi ed un anno d’età gradualmente perdono queste
capacità e la loro percezione si concentra – e limita - alle distinzioni
rilevanti per le lingue che vengono loro parlate. Es.: per un bambino italiano
il suono delle consonanti “b” e “p” è percepito chiaramente come differente, ed
infatti nella lingua serve a distinguere parole diverse (es. “pere” e “bere”).
Per un bambino arabo la differenza è irrilevante poiché nella sua lingua la “p”
non esiste ma soltanto la “b”. Nel caso cresca bilingue invece la differenza
non va perduta se esiste nell’altra lingua che apprende nel medesimo
tempo.
Crescendo dunque
i bambini perdono la capacità di percepire le differenze rilevanti per lingue
che non conoscono ma che non esistono nella lingua a cui sono esposti.
Sarebbe
ovviamente impossibile ed assurdo esporre un bambino a centinaia di lingue, ma
due lingue sono già un grande vantaggio cognitivo: oltre alla maggiore
flessibilità nel percepire suoni diversi il bambino apprende senza fatica a
riconoscere che le cose possono avere nomi diversi, che esistono modi diversi
di esprimere concetti e acquista maggior facilità nell’articolare i suoni di
ambedue le lingue, cosa che tornerà molto utile in seguito per apprendere altre
lingue. Dunque il bilinguismo è vantaggioso sotto molti punti di vista tecnici
e pratici, ma come vedremo anche dal punto di vista culturale (maggiore apertura mentale) e non ultimo
professionale è certo un vantaggio indiscutibile.
Se è possibile,
quali sono le condizioni e le migliori strategie educative ?
Nella prossima
puntata esamineremo in concreto quali possibilità esistono per genitori che
parlano lingue diverse di educare i figli in modo bilingue secondo le
specifiche circostanze.
(Graziano Priotto, Praga/Radolfzell).
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