Sonntag, 21. Oktober 2018

1. È iniziata la scuola, parliamo di bilinguismo. (Prima parte)


Sull'argomento ci sono migliaia di studi e ricerche, dallo sviluppo del bilinguismo nei bambini fino alla decadenza delle capacità linguistiche nella vecchiaia. La maggior parte degli studi fanno riferimento e si richiamano l'un l'altro, pochi sono veramente originali, questo l'avevo già constatato venti o trenta anni or sono quando avevo iniziato a studiare questo argomento.
In Germania a differenza di altre nazioni europee, il bilinguismo è considerato un problema a livello scolastico. O per essere più precisi, a costituire un problema agli occhi degli insegnanti sono le lingue dei bambini stranieri ( che anche se nati in Germania restano stranieri). E per essere ancora più precisi e dirla tutta fino in fondo, non tutte le lingue costituiscono un problema: nessun insegnante tedesco si sognerebbe di sconsigliare l'uso della lingua d'origine coi figli a genitori americani  (ed in minore misura francesi),  mentre invece tutte le altre lingue vengono considerate un ostacolo all'apprendimento del tedesco.      
Atteggiamenti analoghi non si riscontrano in altre nazioni europee, non in Italia o in Francia o nelle nazioni dell' Europa dell'Est, Repubblica Ceca o Polonia o Russia,  di cui  posso parlare per diretta conoscenza.  
Difficile venire a capo di questo atteggiamento poiché non si basa su motivi concreti o riscontri verificabili ma su "opinioni ricevute" come dicono i francesi, cioè idee assorbite senza analizzarne le ragioni. 
La cosa non sarebbe di per se problematica, ma lo diviene nella misura in cui l'uso delle lingue d'origine nelle famiglie degli immigrati viene sconsigliato ai genitori. In misura minore certo attualmente rispetto a decenni or sono, ma pur sempre in misura notevole. Non è un caso che quando si parla di mantenimento delle lingue d'origine la prima reazione sia la diffidenza, la menzione di presunti problemi, i timori per il corretto apprendimento del tedesco, per il "sano ed equilibrato sviluppo del bambino" fino al temuto spauracchio della "Überforderung", cioè del sovraccarico cognitivo, quasi che il cervello dei bambini non fosse in grado di apprendere contemporaneamente più lingue, o quasi che  le lingue nel cervello fossero come le fette di una frittata, e dunque due lingue = mezza frittata ciascuna). 
Stranamente lo stesso "ragionamento" non vale per le altre materie di studio, altrimenti si dovrebbe concludere che ogni apprendimento aggiuntivo va a scapito di quanto si è già appreso. Le lingue non si apprendono però per "sostituzione" ma per addizione, cioè ogni nuova lingua si aggiunge a quelle già conosciute e - come effetto positivo collaterale - più lingue si apprendono,  più facile ne diviene lo studio. 
   
Uno dei problemi è già nella definizione stessa di bilinguismo: da quale livello di padronanza delle lingue una persona può definirsi bilingue ? Ci sono anche molte illusioni al riguardo, come ad esempio che qualcuno possa essere perfettamente bilingue. Già teoricamente è impossibile che chiunque possa conoscere due lingue allo stesso modo, poiché avrebbe dovuto dedicare l'identico tempo all'apprendimento delle due lingue, vivendo quindi nello stesso tempo nei due rispettivi Paesi, e continuare così per il resto della vita.
Un'ottima padronanza è possibile non solo per due ma anche per una dozzina di lingue diverse, e i casi di interpreti che padroneggiano a livello professionale almeno 5 o anche 6 lingue sono numerosi. Ma anche per loro una lingua almeno prevale su tutte le altre. Il famoso linguista Roman Jakobson alla domanda "È vero che Lei parla dodici lingue ?" aveva risposto: "Sí, ma le parlo tutte in russo".
Cioè umilmente ammetteva che l'accento d’ origine non poteva essere dissimulato nemmeno da uno come lui, che come professore di fonetica aveva scritto insieme ad un collega forse il più completo trattato sulla pronuncia dell'inglese.
Chiaramente c'è quindi sempre una lingua che prevale sulle altre. E normalmente si usano le diverse lingue secondo le occasioni: secondo un noto aneddoto l'imperatore Carlo V. avrebbe affermato di usare il francese con i diplomatici, l'italiano con le donne, lo spagnolo per pregare Dio e il tedesco per comandare i cavalli.
Vero o meno l'aneddoto,  esso contiene un insegnamento fondamentale: la padronanza di varie lingue è in funzione dell'uso che se ne vuole o deve fare. Nessuno  - esclusi i poliglotti per diletto o rari  studiosi - impara una lingua senza necessità di utilizzarla. E dunque l'argomento per decidere se devono o meno essere mantenute, studiate e perfezionate le lingue d'origine degli immigrati - in qualunque Paese - è la loro utilità. La risposta è evidente: se i genitori possiedono questa lingua come lingua materna (o una delle lingue apprese nell'infanzia dai propri genitori) hanno motivo di trasmetterla ai figli poiché è parte irrinunciabile della loro identità culturale.
Non si tratta evidentemente di fare di ogni bambino un interprete di conferenza, cioè di fornire conoscenze linguistiche a livello professionale. Per un'educazione equilibrata e completa, quindi partecipe dell'intera identità dei genitori, la lingua d'origine ha un suo ruolo necessario ed insostituibile. Vero è che anche in età scolastica  - e in misura decrescente nell'intera durata dell'esistenza - si potrà ancora apprendere qualunque lingua: ma sarà un apprendimento tecnico che, se anche condurrà a livelli di padronanza ottimali, non avrà mai nulla a che vedere con la trasmissione di una lingua d'origine da parte dei genitori, con tutti i connotati affettivi ed emotivi che non si apprenderanno mai da libri né con le più moderne tecnologie.       
L'unica certezza - ed è un'esperienza quotidiana per chi viaggia e incontra parlanti plurilingui - è che è possibile imparare molto bene più di una lingua, soprattutto se si comincia dalla più tenera età, in famiglia.
I limiti sono dettati infatti dall'età: non è escluso imparare bene una lingua senza accento marcato ancora da adolescenti, fino ai 14-15 anni, ma sono casi rari.
Elias Canetti, premio Nobel per la letteratura, scrisse sempre e soltanto in tedesco. Può essere interessante conoscere il modo in cui divenne plurilingue, come lui stesso racconta in un'intervista:
"Ho trascorso i primi sei anni in Bulgaria, dove ero nato, poi siamo emigrati in Inghilterra. La prima scuola che ho frequentato era in Inghilterra, la prima lingua che ho parlato era lo spagnolo antico, ((la famiglia era di origine sefardita, cioè ebrei cacciati dalla Spagna insieme agli arabi dopo la "Reconquista" cattolica nel 1492)) poi ho imparato l'inglese come seconda lingua. In seguito i miei genitori, che ci tenevano molto alla loro reputazione, avevano preso in casa una governante francese, quindi ho imparato il francese come terza lingua. Mio padre morì ancora molto giovane e mia madre, che amava molto Vienna dove era andata a scuola, emigrò colà con me ed i miei due fratelli.(...).Durante il viaggio verso Vienna mia madre fece una tappa a Losanna, dove in tre mesi mi insegnò il tedesco, come metodi quasi terroristici, poiché voleva che io venissi inserito subito nella classe giusta per la mia età a Vienna. Dunque il tedesco è stata la mia quarta lingua, imparata all'età di otto anni".  (http://elfriedejelinek.com/andremuller/elias%20canetti.html).

Dopo l'infanzia è materialmente impossibile apprendere nuove lingue senza mantenere un accento della lingua d’origine. Ciò per limiti percettivi: salvo eccezioni rarissime, l'orecchio non riconosce più i suoni che sono estranei alle lingue fino ad allora apprese, e quindi se si imparano nuove lingue si adattano semplicemente i suoni conosciuti e praticati facendoli assomigliare a quelli delle nuove lingue. Difficilmente si raggiunge la perfezione: è noto ad esempio il caso di cantanti, soprattutto lirici, che nel canto riescono quasi alla perfezione in svariate lingue, ma poi parlando rivelano l'accento della propria lingua materna. In ogni caso l'accento è un problema sopravvalutato ma secondario, normalmente non disturba troppo la comunicazione. Di fatto nessuno, nemmeno fra i parlanti della medesima lingua, ha l'identico accento, tanto che siamo tutti in grado di riconoscere immediatamente la voce di una persona conosciuta distinguendola da tutte le altre! L'unico problema di chi parla una lingua con accento straniero è la discriminazione da parte dei parlanti nativi, ma non è un problema linguistico ed è tipico delle nazioni che si autodefiniscono monolingui, inesistente invece nelle nazioni in cui il plurilinguismo è la norma.
Un tempo l'educazione plurilingue era o riservata ai figli dei re o degli aristocratici (che affidavano questo compito alle governanti straniere, come già i Romani facevano insegnare dagli schiavi il greco ai loro figli) oppure era la condizione naturale degli schiavi o dei migranti che si trasferivano da un Paese all'altro e dovevano imparare le nuove lingue per sopravvivere.
Il plurilinguismo è sempre stato nella storia la condizione più diffusa e il monolinguismo l'eccezione. Soltanto nel secolo scorso in molti Stati il bilinguismo ha cominciato ad essere considerato un problema, ma non per motivi psicologici o educativi, quanto piuttosto per motivi politici.
Gli antropologi al servizio delle politiche nazionaliste avevano cominciato ad inventare e catalogare le differenze fisiche (aspetto) fra le popolazioni del mondo teorizzando l'esistenza delle "razze" che erano invece frutto della loro fantasia.
Da queste concezioni assurde era derivata la falsa convinzione del monolinguismo come necessità per l'esistenza di una nazione "una lingua = una nazione". Una concezione continuamente smentita dalla storia (in nessun Paese al mondo esiste una sola lingua, se non lingue minoritarie ci sono sempre dialetti) ma che ha giustificato le repressioni ed i genocidi in tutte le epoche storiche. Dal "shibolet" biblico (Libro dei Giudici 12, 5-6)  fino ad oggi, tutti i regimi nazionalisti  hanno sempre preso per prima decisione quella di imporre alle minoranze la lingua della maggioranza vietando più o meno severamente l'uso delle altre lingue - lo ha fatto l'Italia durante il fascismo, la Spagna sotto la dittatura di Franco, lo fanno attualmente i Paesi Baltici e il governo ucraino vietando la lingua russa nell'insegnamento scolastico: non dico qui che siano fascisti, ma semplicemente constato che si comportano in ambito linguistico esattamente come i governi fascisti. 
Ma tornando al problema della trasmissione e del mantenimento delle lingue d'origine degli immigrati, quali sono le migliori metodologie per il successo linguistico e naturalmente scolastico ? 
In una serie di puntate successive proveremo a riferire quanto la ricerca attuale e soprattutto le esperienze dirette sanno dire di meglio a tal proposito. 
(Graziano Priotto, Costanza/ Praga)


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