Mittwoch, 8. Mai 2013

 
COME IL RISPARMIO PRESUNTO DIVENTA SPRECO REALE (redazione provvisoria in attesa di commenti)



Chiarimenti terminologici per focalizzare i termini del problema 

L’attuale congiuntura economica variamente definita secondo i punti di vista parziali come  crisi finanziaria, monetaria, di sovrapproduzione, di credito alle imprese e via dicendo è un fenomeno globale le cui specifiche apparenze in diverse parti del mondo derivano unicamente dalle diverse modalità di affrontare lo stesso problema.
Nella sua forma più astratta, in termini di economia politica, l’obiettivo di ogni intervento di politica economica consiste nella miglior forma di organizzazione della produzione e della distribuzione secondo criteri di:
1)      equità (nella distribuzione dei beni e dei servizi) ;
2)      adeguatezza (dei beni prodotti rispetto ai bisogni);
3)      efficienza ed efficacia (dei modi di produzione: impiego delle risorse materiali ed umane – capitali e lavoro) in modo da poter soddisfare in modo continuativo e stabile i bisogni;
4)      sostenibilità ecologica (condizione la cui necessità è apparsa evidente soltanto nell’ultimo mezzo secolo, a partire dal rapporto del Club di Roma del 1957 sui limiti dello sviluppo economico).
Le condizioni succitate sono evidentemente elementi da combinare. Affinché il processo economico avvenga occorre, come in molte reazioni chimiche, un catalizzatore che in questo caso è la motivazione imprenditoriale. E questa è condizionata inevitabilmente dall’obiettivo del  profitto, elemento non necessario nelle sole economie di sussistenza, ma imprescindibile a partire da quel minimo stadio in poi.
Il profitto (o plusvalore nella teoria marxista) non è di per se un elemento negativo, poiché visto in altra ottica altro non è che il risparmio: un eccesso di produzione che nel caso ottimale viene impiegato per migliorare le condizioni della produzione (e diventa nuovo investimento, es. in macchinari che riducono la fatica o il tempo di lavoro) o per soddisfare nuovi bisogni (es. nuove apparecchiature che rendono la vita più comoda).       
Fin qui la teoria ingenua.
La realtà come sappiamo è ben diversa, e come sperimentiamo tutti nei Paesi industrializzati (e ancor più in quelli de-industrializzati o in corso di de-industrializzazione come ad es. la Francia o l’Italia) il profitto nella sua forma più deteriore (cioè finalizzato non come sopra a migliorare il sistema ma a garantire la concentrazione del potere economico e della ricchezza per un numero sempre più ristretto di individui) da catalizzatore è divenuto fine unico ed obiettivo supremo del sistema produttivo: una divinità laica alla quale sacrificare tutto il resto. E per analogia biologica, un virus che minaccia la distruzione del corpo che ha infestato poiché tramite continue mutazioni si sottrae ad ogni possibile controllo, anzi è avviato ad assumere il controllo totale di tutte le istituzioni.  
Ne vediamo un esempio immediato e concreto nel capovolgimento dei concetti basilari dell’economia indotti nel contesto attuale di quella che viene spacciata come “crisi del debito sovrano” cioè statale. Una prima grossa menzogna, poiché tanto per cominciare non si tratta in misura decisiva di debito “sovrano”, ma di debito privato degli istituti di credito, i quali sono stati (e continueranno ad essere) salvati grazie al trasferimento dei debiti bancari (e quindi privati) agli Stati, che li hanno pagati e continuano a pagarli prelevando i fondi necessari dagli introiti fiscali e quindi aumentando il carico fiscale sui cittadini e sulle imprese: con l’unico risultato di fermare lo sviluppo economico e imporre alle economie una recessione che rischia di divenire irreversibile.
Questa strabiliante “soluzione” adottata dai governi europei con la seconda motivazione menzognera (“salvataggio” dell’euro) è stata presentata agli ingenui elettori come “politica di risparmio”, “austerità” , spesso scritta “austerity” in Italia, per prendere meglio per i fondelli con un termine di sapore tecnico e nascondere il banalissimo concetto di “risparmio selettivo”, cioè rapina a chi ha poco per dare a chi ha già molto. 


Le cantonate (o i celati obiettivi) dei tecnici al governo.

Se si esaminano i fatti, appare evidente che è un affronto alla lingua italiana chiamare “risparmio” le misure imposte dalla Troika  e supinamente ed acriticamente accettate dal governo di Monti (incredibile ma vero: un professore di economia).
E, non dimentichiamolo, misure avallate da praticamente tutti i partiti allora esistenti, che quindi erano “della stessa sostanza”. Nessuna sorpresa dunque l’emergenza e ufficializzazione della coalizione PD e PDL: erano e sono la mano destra e sinistra del medesimo corpo politico fatiscente che, per mantenere il potere, con le ultime energie si avvinghia al collo dell’economia italiana senza preoccuparsi se così facendo finirà per strozzarla. 
Le misure di “austerità” sono infatti  uno SPRECO e non un risparmio.
In termini economici, nel sistema capitalistico la forza lavoro è equiparabile ad un capitale, il cui valore si può con buona precisione valutare: o come somma degli investimenti necessari alla formazione professionale del lavoratore (costi reali) o come ritorno futuro dell’investimento (salari e stipendi presumibili che il lavoratore percepirà nel corso dell’attività lavorativa).
 Lasciare inutilizzata la forza lavoro facendo aumentare la disoccupazione ed in particolare quella giovanile (che è il capitale più fruttifero del domani) e ciò nella misura del  40 % ed oltre in Paesi come Grecia, Spagna e presto anche in Italia è un enorme SPRECO di risorse.
Uno spreco che diventa un obolo ad altri quando ad es. i giovani formati professionalmente a spese di uno Stato incapace poi di utilizzarne le competenze sono costretti ad emigrare in altri Stati che si trovano così a poter scegliere e disporre a costo zero degli addetti di cui hanno bisogno e solo di quelli. E drenando la manodopera maggiormente qualificata da altri Paesi, quelli meta di immigrazione hanno l’ulteriore vantaggio di eliminare o ridurre in misura corrispondente la concorrenza straniera, cioè dei Paesi di partenza, le cui imprese possono poi disporre unicamente di manodopera meno qualificata. Dunque un crescente handicap che incrementa fino a renderla irreversibile la spirale recessiva.
La disoccupazione, cioè lo spreco delle risorse umane è dunque una pazzia già dal punto di vista strettamente economico, senza contare le tragiche conseguenze umanitarie per una generazione che rischia di essere “bruciata” (senza presente né futuro).
Un’ipoteca pesantissima inoltre anche per l’attuale generazione (dai 40 anni in poi) che ancora ha una maggiore percentuale di addetti stabilmente occupati, le cui pensioni ovviamente non verranno pagate, come taluno crede, con le quote versate agli istituti pensionistici, ma potranno unicamente derivare dalle contribuzioni future di chi lavora (si riceverà al massimo la pensione corrispondente ai contributi versati dai futuri lavoratori, quindi l’attuale disoccupazione e la futura riduzione del numero di addetti ridurrà drasticamente l’importo delle pensioni). Né serve eccepire che si può compensare la riduzione delle contribuzioni future con il risparmio investito nei fondi pensione, poiché anche a prescindere da un’eventuale caduta di valore per inflazione,  se mancheranno i servizi ed i beni prodotti, non servirà avere mezzi finanziari per comperare … l’inesistente.
Come si vede già col semplice ragionamento basato sull’evidenza dei fatti, anche senza ricorrere a formalizzazioni matematiche (che sono disponibili e confermano con dati ancor più drammatici quanto già la semplice intuizione suggerisce), è chiaro che le politiche attuali
non possono che condurre alla rovina. 
Errare è umano ma perseverare è irresponsabile. Decisioni chiare e urgenti sono necessarie, non petizioni di principio tipo “occorre pensare alla crescita” come quelle pronunciate dall’attuale capo del governo italiano Letta e ripetute dal presidente francese Hollande ma contestualmente smentite dalle dichiarazioni di fedeltà alla linea di insensato risparmio della cancelliera tedesca Merkel, del suo ministro delle finanze Schäuble e della troika (FMI - Fondo Monetario Internazionale, BCE Banca Centrale europea, Commissione EU).


Le (ir)responsabilità politiche e involuzioni autoritarie in Europa

Quello che all’inizio veniva presentato come un problema contingente e forse superabile causato da un’avventata unione monetaria (decisa per interessi politici senza verifica adeguata dei requisiti minimi per poter funzionare, ignorando scientemente tutte le riserve degli economisti indipendenti) si sta sviluppando in una colossale tragedia sia economica che politica e umanitaria, una recessione che rischia di travolgere l’intero costrutto dell’unità europea.
Se finora si poteva parlare di pericoli, è giunto il momento di prendere atto dei fatti e cessare di ignorarli. Ne citiamo soltanto un paio, scegliendo fra i più significativi.
1)      Crisi della sinistra in Francia: Hollande, giunto al potere come il presidente della speranza, è il presidente che storicamente raccoglie il più basso livello di fiducia nelle indagini di opinione; la leader dell’opposizione di estrema destra conservatrice Marie Le Pen se si votasse domani sarebbe al secondo posto e non tarderà ad arrivare al primo se non si cambia strada.
2)      Una recente indagine in Grecia ha rivelato che nell’opinione popolare oltre il 60% degli elettori considerano che la situazione sotto la dittatura dei colonnelli (negli anni ’60) era migliore di quella attuale;
3)      Il partito antieuropeista (ed anti immigrazione) in Gran Bretagna di Nigel Farage si è posizionato al terzo posto e non è più da escludere che alle prossime elezioni giunga al potere e sancisca l’uscita dell’Inghilterra (già con le proprie difficoltà per via della possibile secessione della Scozia) dall’Unione europea.  E teniamo conto che il Paese ha mantenuto la sterlina: se dovesse spartire coi Paesi mediterranei (o con l’Irlanda) i problemi dell’area euro l’Inghilterrra sarebbe sicuramente già uscita dall’Unione.
4)      Nella stessa Germania, che come Paese (sebbene con metodi discutibili: riforme Harz) si è posizionato in condizioni vantaggiose sui mercati europei e mondiali a pochi mesi dalla prossime elezioni politiche è stato fondato in questi giorni un partito “antieuro” ma soprattutto anti-europeo (con connotati chiaramente di destra e anti-immigrazione, nel quale è inevitabile veder confluire le forze nazionaliste esacerbate e probabilmente razziste).
 Sorvoliamo pure sulle peraltro arcinote violazioni di fatto delle tradizioni se non delle regole democratiche: gli elettori greci non avevano potuto decidere due anni or sono con un referendum le misure di austerità, ma hanno espresso con ogni evidenza la loro opinione e continuano a farlo scendendo in strada contro il governo. La stessa cosa avviene in Portogallo, in Spagna, in Italia e ultimamente anche in Francia. 
Il “fiscal compact” è stato introdotto negli Stati dell’UE tramite cessione delle sovranità nazionali ad Istituzioni europee ancora in corso di costruzione ma già ora chiaramente prive di legittimità democratica poiché soggette – e lo ammettono apertamente – a soddisfare le voglie del mondo della finanza, o come esprimono con un cinico eufemismo  a “rassicurare i mercati” (cioè a garantire l’ininterrotto flusso di risorse dai cittadini ai detentori di posizioni di rendita). 


L’austerità smentita dai fatti e le confusioni sui tipi di debito. 

Va premesso che tener conto unicamente del debito statale, come fanno quasi tutti i commentatori, preclude la comprensione della crisi finanziaria europea. Che i politici se ne rendano conto o meno è materia di discussione, ma è evidente che essendo il debito sovrano l’uniuco elemento sul quale possono immediatamente influire (all’interno delle strette norme del Fiscal Compact  beninteso), il debito delle famiglie e delle imprese passa ingiustamente in seconda linea. O forse non viene menzionato perché in realtà ciò che interessa è un solo tipo di debito in particolare: quello delle banche. 
L’indebitamento o debito sovrano è espresso tramite una frazione al cui numeratore si scrivono i debiti ed al cui denominatore si indicano gli introiti, nel caso specifico il debito pubblico (“sovrano”) al numeratore e il PIL (Prodotto Interno Lordo) al denominatore.
Non occorre essere matematici per capire che per variare il risultato dell’operazione su questa frazione si può agire sia sul numeratore (diminuendo le spese statali o aumentando il prelievo fiscale per compensarle) che sul denominatore (aumentando la produzione e la vendita di beni e servizi).
I grandi cervelli dei governi tecnici imposti in vari Stati europei dalla “troika” hanno scelto la via più semplice, cioè quella del prelievo fiscale, e per di più in modo selettivo colpendo inesorabilmente i piccoli redditi ed esonerando quelli più alti. Le spese statali ed in particolare quelle della politica (che non sono solo li stipendi ai parlamentari ed al loro entourage ma tutta la cascata di privilegi, favori e contributi finalizzati all’acquisto e mantenimento dei consensi elettorali) sono rimaste immutate o sono cresciute.
Il risultato è stato inevitabilmente negativo: l’indebitamento è cresciuto. Ciò poiché l’inasprimento fiscale insieme alla stretta creditizia hanno fatto crollare la produzione, l’abbassamento del tenore di vita ha ridotto il volume di spesa dei cittadini e di converso la propensione delle imprese ad investire e produrre si è ridimensionata ed il PIL è diminuito.
La prima conseguenza è stata la forte crescita della disoccupazione, e siccome è impossibile un prelievo fiscale da stipendi inesistenti o merci non prodotte, il numeratore debitorio è rimasto immutato a fronte di un denominatore fortemente diminuito: il risultato dunque è un ulteriore aumento della percentuale di debito sovrano, al quale va ad aggiungersi quello privato in forte ed inesorabile crescita.
Ancor più incredibile è il fatto che a livello europeo i capi di Stato dell’UE abbiano accettato il meccanismo del “Fiscal compact”, cioè il “Trattato di Stabilità, Coordinamento e Gestione dell’unione economica e monetaria” o TSCG, che sintomaticamente ha sostituito il precedente che ancora conteneva nel titolo il termine “crescita” (Stability and Growth Pact) cioè un patto per stabilità e crescita viene ridimensionato a solo strumento di risparmio e reso norma cogente con contestuale rinuncia degli Stati membri alle sovranità nazionali nell’ ambito fondamentale, cioè la gestione delle risorse. Il trattato stabilisce limiti molto stretti alla spesa pubblica e impedisce agli stati aderenti di prendere iniziative nazionali per il rilancio dell’economia tramite aumento della spesa.
A questo trattato insensato giustamente il 2 marzo 2012 due Stati hanno rifiutato l’adesione: la Gran Bretagna per lunga tradizione di autonomia e la Repubblica Ceca (che dopo essersi liberata nel corso dell’ultimo secolo da ben tre dominazioni –Impero Austro-Ungarico, Germania nazista ed Unione Sovietica) evidentemente non era disposta a cedere la propria sovranità ai burocrati di Bruxelles per un piatto di lenticchie. Cosa che invece hanno fatto tutti gli altri capi di Stato e subito dopo i rispettivi parlamenti ratificando in sordina questo patto scellerato che è in eclatante violazione delle rispettive Costituzioni Nazionali.      

In un prossimo articolo, per tranquillizzare i ragionieri, riporteremo i dati statistici disponibili a documentazione aritmetica del discorso fin qui svolto.   

Anticipiamo qui una sola tabella, dalla quale si può già desumere che non esiste rapporto reciproco fra tassi di interesse per il finanziamento dei debiti sovrani ed il loro importo.
E che la crescita o decrescita del PIL non  è in correlazione né col debito né  con i tassi creditizi dei prestiti statali. 
(in corso di rielaborazione)
Stato 
+/- PIL
indebi-tamento
 % PIL
2012
2011
2010
2009
2008

PIL
+/-
Debt
% PIL
Rendita titoli stato a 2 anni
PIL
+/-
Deb
t% PIL
PIL
+/-
Debt
% PIL
PIL
+/-
Debt
% PIL
PIL
+/-
Debt
% PIL
Germania
0,7
81,9
0,004
3,0
80,5
4,2
82,5
-5,1
74,5
1,1
66,8
Francia
0,0
90,2
0,096
1,7
86
1,7
82,3
-3,1
79,2
-0,1
68,2
Italia
-2,4
127
1,30
0,4
120
1,8
119
-5,5
116
-1,2
106
Spagna
-1,4
84,2
1,61
0,4
69,3
-0,3
61,5
-3,7
53,9
0,9
40,2
Portogallo
-3,2
123,6
2,59
-1,6
108
1,9
93,5
-2,9
83,2
0,0
71,7
Irlanda
0,9
117,6
1,03
1,4
106
-0,8
92,2
-5,5
64,9
-2,1
44,5
Grecia
-5,7
156,9
  ----
-7,1
170
-4,9
148
-3,1
129
-0,2
112
Slovenia
-2,3
54,1
3,48
0,6
46
1,2
38
-7,8
35
3,4
22
Romania
0,7
37,8
 ----
2,2
33,4
-1,1
30,5
-6,6
23,6
7,3
13,4
Gran Bretagna
0,3
90
0,27
1,1
85
1,8
79,4
-4,0
67,8
-1,0
52,3
Polonia
1,9
55,6
2,63
4,5
56,4
3,9
54,8
1,6
50,9
5,1
47,1
Repubbl. Ceca
-1,3
45,8
0.35
1,9
16,3
2,5
16,2
-4,5
14,6
3,1
13,7
Austria
0,8
73,4
0.09
2,7
72,4
2,1
72
-3,8
69,2
1,4
63,8
Belgio
-0,2
99,6
0,09
1,8
97,8
2,4
95,5
-2,8
95,7
1,0
89
Olanda
-0,1
71,2
0,07
1,0
65,5
1,6
63,1
-3,7
60,8
1,8
58,5
Svezia
0,8
38,2
0,78
3,7
38,4
6,6
39,5
-5,5
42,6
-0,6
38,8
Danimarca
-0,5
45,8
0,08
1,1
46,9
1,6
42,9
-5,5
40,6
-0,8
33,4
Finlandia
-0,2
53
0,00
2,8
49
3,3
48,6
-8,5
43,5
  0,3
33,9
Slovacchia
2,0
52

3,2
 43
4,4
41
-4,9
35,6
5,8
27,9
Ungheria
-1,7
79,2

1,6

1,3

-6,8

0,9

Russia

 9,6
5,90
4,3
 11,7
4,3
11
-7,8
 7,9
  5,2
  8,5


Turchia
2,3
39,4
5,07
8,5
42
8,9
46





Giappone

218
0,11
-0,7
212
4,4
225
-5,5
193
-1.0
173

USA

105
0,22
1,7
100
3
90
-3,5
80
-0,4
65


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