Le crisi ricorrenti del capitale : la lezione attualissima di Federico Caffè.
La mattina del 15 aprile del 1987 uscì dalla sua casa romana e sparì senza
lasciare traccia di sé. Ma è rimasto nella memoria dello stuolo di studenti che
nella sua lunga carriera di insegnamento aveva formato nella convinzione che
una politica economica ben compresa e
orientata alla valorizzazione del lavoro fosse la condizione irrinunciabile
dello sviluppo armonico di ogni società.
È stato uno dei più grandi
economisti italiani, aveva studiato anche in Inghilterra, ed era stato docente
all’Università La Sapienza di Roma. Generazioni di studenti, come il
sottoscritto, hanno studiato sul suo testo rimasto classico “Lezioni di
politica economica”. Era un sostenitore delle teorie di Keynes, cioè
dell'intervento dello Stato per regolare i cicli economici e per promuovere la
piena occupazione.
Purtroppo la sua lezione fondamentale è stata completamente disattesa, ed
oggigiorno ne pagano le conseguenze sia i cittadini che le imprese. Infatti
quello che egli considerava giustamente il valore fondamentale e cioè il lavoro
è stato sostituito dalla teoria neoliberista la cui perversione così ben
sintetizzava: "Al posto degli uomini abbiamo sostituito numeri ed alla
compassione delle sofferenze umane abbiamo sostituito l'assillo dei riequilibri
contabili". Esattamente la tragica concezione che negli ultimi decenni
ed a tempi sempre più ravvicinati ha condotto a crisi ricorrenti curate con una medicina peggiore del male (austerità) e quindi disoccupazione crescente ed
endemica, soprattutto quella giovanile.
Caffè considerava la disoccupazione come lo spreco, la perdita maggiore ed
irrecuperabile che una società potesse auto-infliggersi. Se ancora fosse fra di
noi - sarebbe ultracentenario - vedrebbe confermate tutte le sue critiche e
profezie contro le decisioni sbagliate in politica economica che hanno condotto
ai disastri che ben conosciamo e che sono unicamente il preludio a quelli ben
peggiori che ci attendono senza un urgente cambiamento di rotta.
Sulle insensate misure del tipo "reddito di cittadinanza" avrebbe
ricordato ai demagoghi incoscienti che "non si rende felice una persona
concedendole sussidi ma invece assegnandole un lavoro ed un salario
adeguato".
Era altresì convinto - contro i teorici del neoliberismo (che per fortuna
sua non aveva potuto vedere ai vertici dei governi a compiere gli scempi ai
quali assistiamo)- che il mercato non va idolatrato come se fosse un meccanismo
perfetto autoregolante ma invece una struttura incompleta e selvaggia che
necessita orientamento e regolazione nell'interesse sia dei
produttori/investitori (cioè del capitale)
che dei lavoratori. Era un acerrimo nemico delle speculazioni e aveva
proposto se non la chiusura almeno la regolamentazione della borsa valori:
esattamente l'opposto è avvenuto, la cosiddetta "deregolarizzazione",
cioè l'annullamento di tutte quelle misure che nel primo dopoguerra avevano
consentito i vari "miracoli economici". Giustamente aveva compreso
che il problema non era il "debito" (e per questo era contrario
all'abolizione della "scala mobile", cosa che avvenne e che come
vediamo non ha per nulla ridotto il problema dell'inflazione o meglio lo ha
trasformato in quello ben peggiore della disoccupazione).
Ricordava ai suoi critici che "inflazione
significa danaro senza cose, quindi l'inflazione c'è soltanto quando manca la
produzione " poiché si devono mantenere i disoccupati senza produrre le
cose". Dunque la politica economica di Federico Caffè si concretizzava
nel comandamento fondamentale rivolto allo Stato: "assicurare ai cittadini
il lavoro".
Un comandamento che è scritto all'inizio della costituzione Italiana ma che
è divenuto lettera morta.
Anche sul risparmio la sua concezione era logicamente coerente "I
denari, anche se in proporzioni modeste, ci sono: si tratta di iniziarne il
movimento e di manovrarlo opportunamente nel tempo". Esattamente
l'opposto di quanto hanno fatto tutti i governi degli ultimi decenni. Oltre che
di Keynes era anche un ammiratore di Roosevelt e del suo "New Deal",
cioè del "Nuovo Patto" fra Stato, imprese, finanza e associazioni
sindacali per uscire dalla "grande depressione" del 1929, causata
dalla speculazione borsistica selvaggia. Il Presidente USA che aveva compreso
come per evitare crisi economiche l'apparato finanziario (e cioè la
circolazione del denaro) doveva essere assoggettato a sostenere l'economia
reale e cioè la produzione e non la speculazione a fini di profitto.
I presidenti successivi cancellarono le norme e da allora assistiamo in
continuazione a crolli bancari e ad una concentrazione della ricchezza
speculativa in sempre meno mani. Ed infine: a monte di debiti statali e privati
crescenti la quantità di denaro circolante è cresciuta in misura abnorme (si
calcola che superi di oltre tre volte il prodotto nazionale lordo annuale
mondiale. Un meccanismo economico che ha perduto la bussola non può che
navigare a vista, e siccome per la nave che non conosce il proprio porto nessun
vento è favorevole, nessuna delle misure intraprese per rilanciare l'economia
nei Paesi occidentali e segnatamente in Europa e soprattutto in Italia ha la
minima possibilità di condurre a risultati validi e duraturi. Le toppe
applicate di volta per fronteggiare le sempre nuove crisi non lasciano più
nemmeno riconoscere il tessuto originario. Gli economisti come Federico Caffè
sono divenuti rari, e non tutti i suoi allievi hanno appreso la sua lezione
fondamentale, nemmeno quelli giunti a ricoprire alte cariche prima in Europa e
poi in Italia. Certo ai suoi tempi l'Unione europea non era ancora degenerata a
Europa dei capitali, delle banche e della finanza speculativa. E se fosse
ancora fra di noi sarebbe certamente un "antiglobalista" ma si
rallegrerebbe nel vedere emergere un mondo multipolare in cui al posto delle
attuali piovre finanziarie (come ad es. il Fondo Monetario Internazionale)
banche alternative come quella dei BRICS appena inaugurata in questi giorni in
Cina si propongono come strumenti di sostegno ai Paesi del terzo mondo ed a
quelli che ne sono appena usciti e si prefiggono non l'assistenzialismo ma la
riorganizzazione di uno stato sociale di stampo scandinavo, dove invece di
privatizzazione selvaggia lo Stato ha un peso ed una forza regolatrice per
garantire lavoro e benessere ai cittadini invece che disoccupazione, miseria,
emigrazione alle masse e profitti incontrollati a pochi, con uno spreco della
risorsa più preziosa di ogni società: il lavoro.
Le lezioni dimenticate sono quelle che costano più care, poiché cadute le
illusioni del neoliberismo e della creazione di ricchezza finanziaria dal
nulla, l'economia reale tornerà dolorosamente per tutti a ricordare la logica della politica economica a misura
d’uomo e non del capitale.
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